Credereste al fatto che il capitano della Nazionale sia un musulmano praticante? Quanto è importante il ruolo dell’ideologia sionista? Può essere mai banale il calcio in una nazione come Israele?
Uno sguardo al presente per capire il passato di un movimento calcistico in evoluzione.
27 luglio 2022, Stadio “Georgios Karaiskakis” del Pireo. È il ritorno del secondo turno di qualificazione ai gironi di Champions League e i padroni di casa dell’Olympiakos ospitano il Maccabi Haifa. Malgrado il blasone, le forze in campo e l’1-1 dell’andata maturato in Israele facciano pensare ad un più o meno comodo passaggio del turno dei greci, accade qualcosa che rimarrà nella storia del calcio israeliano. Il Maccabi Haifa rifila uno 0-4 ai campioni di Grecia e passa il turno. Così, dal nulla, si è acceso l’interesse per un campionato periferico del calcio europeo, ma pieno di passione e di derby infuocati – alimentati spesso da motivi extracalcistici.
Israele: da potenza del calcio asiatico a “ospite” non gradito
La Hahitakhdut leKaduregel beYsrael è stata fondata nel 1928. Sino agli anni ‘70 ha fatto parte dell’AFC, l’ente FIFA che gestisce il calcio asiatico, vincendo la Coppa d’Asia nel 1964. Se assumiamo come accettabile il concetto per cui la vita di una persona o di un popolo abbia cadenza circolare, la storia del calcio israeliano ha vissuto, simbolicamente, le stesse peripezie del popolo di Israele raccontate nel libro dell’Esodo. Non parliamo di un viaggio di quarant’anni nel deserto inseguiti dalle truppe del Faraone, certo, ma ci andiamo comunque vicini.
Nel 1974, sotto le forti pressioni del mondo arabo, sconvolto e infuriato per la situazione palestinese, l’AFC estromise Israele dalla Federazione. La Nazionale giocò solo in via provvisoria sotto il controllo della UEFA tra il 1980 e il 1984. In un paio di occasioni, tra il 1974 e il 1991, operò sotto l’egida addirittura della Federazione dell’Oceania. Nello stesso anno, infine, il calcio israeliano ritrovò una sua collocazione, quando ottenne la definitiva affiliazione all’UEFA, che permise ai club di competere nelle coppe e alla Nazionale di partecipare alle qualificazioni a USA ‘94.
Sionismo e calcio in Israele: un legame scomodo
La serie A israeliana – Ligat ha’Al – è un campionato composto da 14 squadre che si sfidano in un girone all’italiana e chiudono la stagione con playoff e playout . Padrone assoluto dell’albo d’oro è il Maccabi Tel Aviv con 23 titoli, seguito dal Maccabi Haifa con 14 vittorie, dai concittadini dell’Hapoel Tel Aviv con 11 – l’ultimo nel 2010 – e il Beitar Gerusalemme che di titoli ne ha 6. Ci sono poi altre squadre di importanza rilevante, con titoli vinti e partecipazioni alle coppe: l’Hapoel Be’er Sheva, l’Hapoel Petah Tiqwa, il Bnei Yehuda – letteralmente la squadra dei “Figli di Giuda” di Tel Aviv – e ancora il Maccabi Netanya e l’Hapoel Haifa.
Le contraddizioni millenarie di questa terra – purtroppo ancora vive e troppo spesso sanguinose – hanno influenzato sin dalle origini anche il calcio. Sino alla nascita ufficiale dello Stato di Israele, quindi 1948, esisteva un campionato di calcio unico palestinese. Durò una quindicina di stagioni, alcune delle quali, tuttavia, non giocate. Fondato il nuovo Stato, anche il calcio divenne una questione prettamente israeliana. Ancora oggi le origini dei club, le stesse nomenclature e gli sviluppi del tifo rimarcano più che mai le differenze.
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Per cui i tanti Maccabi prendono il nome dai Maccabei – i “martellatori” -, che furono un gruppo rivoluzionario ebreo fondamentale durante la rivolta contro i Seleucidi nel II secolo a.C.. I vari Hapoel sono direttamente collegabili al sindacato sionista dei lavoratori Histadrut, che abbraccia ampie parti della società, risultando moderato nei confronti dei non ebrei. Il club più inclusivo tra questi, l’Hapoel Gerusalemme, ritornato nella massima serie dopo alcuni anni di anonimato, vive un derby accesissimo contro i rivali dell’altra parte della città, i gialloneri del Beitar Gerusalemme.
Questa squadra e il suo principale gruppo ultras, “La Familia”, meritano un discorso a parte. Il Beitar prende il nome dall’omonimo movimento radicale giovanile. Questo è una costola del movimento politico culturale “Sionismo Revisionista”, fondato nel 1923 da Vladimir Žabotinskij e padre politico del Likud, l’odierno partito di estrema destra israeliana. Oltre al derby della capitale, o alle grandi rivalità nel resto del paese, un’altra partita molto sentita è quella contro il Bnei Sakhnin. Squadra del nord del paese indistintamente supportata da arabi ed ebrei, ha fatto suo il motto “Non c’è religione. Non ci sono arabi, né ebrei, né stranieri. Siamo un’unica famiglia”.
In questo contesto, gli Ultras de “La Familia” hanno spesso manifestato il loro estremismo sulla questione palestinese e sulla presenza di calciatori non “puri” all’interno del club, malgrado la società abbia cercato faticosamente di prendere le distanze. Per quanto una buona fetta dei tifosi del Beitar si opponga, almeno agli occhi dell’opinione pubblica, a questa islamofobia, lo striscione “È una lotta tra il nostro Dio e il loro”, esposto più volte durante le sfide contro le squadre più moderate e miste, esemplifica il concetto espresso in precedenza.
La Nazionale come unica via d’uscita?
Come può essere rappresentativa una nazionale di calcio, se all’interno del paese ci sono tutte queste differenze?
L’Israele, tolto il titolo in Coppa d’Asia e la partecipazione al Mondiale di Messico ‘70, ha obiettivamente regalato poche gioie ai suoi supporters. La presenza assidua nei tabelloni del calcio europeo, poi, ha fatto conoscere meglio alcuni dei migliori calciatori. Al contempo, però, ha reso ancora più impietoso il confronto con delle avversarie maggiormente pronte. Nell’ultimo ventennio si sono registrati dei miglioramenti. Non a caso, un Europeo sfiorato e risultati di un certo valore che hanno permesso alla nazionale di piazzarsi nel 2008 anche al 15esimo posto nel ranking FIFA.
Giocatori di grande impatto come Yossi Benayoun, Eran Zahavi, Tal Ben Haim, Eyal Berkovic, o ancora l’ex Brescia Tal Banin hanno calcato i migliori campi d’Europa rendendo orgoglioso il popolo israeliano. E per popolo israeliano intendiamo tutto il popolo di Israele, senza distinzione. È proprio questo il miglior risultato della Nazionale: la capacità di aprirsi a tutte le sfaccettature e di trascinare con se un mondo calcistico israeliano sempre meno estremo – tolti alcuni casi.
Ad esempio, Bibras Natcho è stato anche capitano della Nazionale ed insieme a Zahavi ne è uno dei giocatori più rappresentativi. Ma non basta. In quanto capitano e musulmano praticamente è stato al centro di un querelle tra le due leggende Berkovic e Benayoun. Il primo lo ha pubblicamente criticato per non aver cantato l’inno nazionale. Il secondo si è espresso a favore del capitano, ricordando a tutti che l’inno è di Israele e non dei soli ebrei. Nota a margine: l’inno israeliano è l’Hatikvah – La Speranza – intesa come quella degli ebrei di tornare nella Terra Promessa. Probabilmente qualunque scelta avrebbe esposto Natcho a delle critiche, in una terra che di pace ha vissuto pochi giorni nella sua storia.
Ma la Nazionale di tutti gli israeliani, concedeteci questo appellativo, non ferma il suo cammino di emancipazione e inclusione. Da un decennio ormai, Munas Dabbur è considerato uno dei calciatori più forti prodotti dal calcio del suo paese – primo calciatore arabo-israeliano di livello internazionale. Attaccante da oltre 100 gol in carriera, è un simbolo della parte “debole” del paese. È un convinto critico dell’operato del governo di Gerusalemme in tema di risoluzione delle asperità nel suo paese. Dor Peretz, centrocampista passato da Venezia senza lasciare il segno, è uno dei calciatori di maggior tecnica della selezione ed è un ebreo sefardita di origine marocchina.
Elezer “Eli” Dasa, terzino ex Vitesse – 13 assist in 71 presenze in Eredivisie -, rappresenta ancora un’altra faccia del calcio in Israele. Presenza fissa con la maglia biancoblu della Nazionale, anche a livello giovanile, è un rappresentante della minoranza etiope. O ancora: il talento del Celtic Glasgow, il ventenne Liel Abada – nome da seguire con attenzione -, è un ebreo d’Oriente, un Mizrahì.
In questa ricerca di normalità, c’è pure chi ha fatto il percorso inverso come Dia Saba. Gambe veloci e buona tecnica, il centrocampista è entrato nella storia compiendo una scelta difficile e storica, anche se ben retribuita: è diventato il primo calciatore ebreo a firmare per una squadra araba, l’Al Nassr di Dubai, negli Emirati Arabi Uniti.
Può il calcio essere mai banale in una nazione come Israele?
E’ ora più chiaro che fare calcio da queste parti non è proprio una questione facile. Lo sport è solo uno dei tanti ingredienti di un grande calderone, ma farli stare bene insieme è spesso difficoltoso. Ebrei, musulmani e altre minoranze etniche giocano la loro partita quotidianamente. Il calcio è spesso un appiglio, come accade in altre zone del mondo. Per questo motivo, lo 0-4 del Maccabi Haifa in Grecia ha un certo valore.
E quando il Dio del Calcio decide di intervenire, sa quali corde toccare. L’accesso ai gironi di Champions League – non una cosa proprio consueta per una squadra israeliana – è passata dalla doppia sfida contro la Stella Rossa Belgrado. Un ultimo sforzo contro un’altra squadra rappresentante di un mondo che di contraddizioni ne ha più di quante ne necessitino.
Oltre a quelle sul campo, la vera sfida della Federazione israeliana sarà continuare il faticoso percorso di unione sportiva, che può essere il motore di un processo ancora più complicato di unificazione a livello nazionale. Se poi arrivassero risultati sportivi prestigiosi, considerata l’importanza, è piuttosto probabile che il Maccabi Haifa raccoglierebbe simpatie anche dalle frange di tifosi meno vicini.
Il calcio non potrà mai essere banale in un paese come Israele, con le sue mille anime, i suoi derby di fuoco che nascondono conflitti irrisolti e una ricerca costante di unità e identità. Chissà che questa ricerca non possa giungere ad un esito positivo grazie a squadre come il Maccabi Haifa, a giocatori come Bibras Natcho e ad una Nazionale in costante crescita.
Immagine di copertina realizzata da PSM SPORT, base tratta da Times of Israel
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