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Helmut Klopfleisch: storia di una leggenda del calcio tedesco

Esiste una cosa, o meglio due, che i regimi totalitari e le squadre di calcio chiedono in maniera incondizionata ai propri tifosi: amore e fedeltà. Un club calcistico può accettare che il cuore di un tifoso batta anche per un partito politico o per un ideale. Un regime, invece, non può assolutamente accettare di essere messo in secondo piano, nemmeno per una squadra di pallone. La storia di oggi parla di questo in fondo: di fedeltà, di amore e di passione. Forse, anche di chi più le meriti fra un governo dispotico ed una squadra di calcio.

I regimi autoritari hanno avuto un rapporto ambivalente nei confronti dello sport da sempre. Da un lato, il controllo e l’indirizzo del consenso attraverso le attività ludiche per il popolo rappresenta uno dei pilastri del manuale del buon dittatore. Potremmo tracciare una chiara cronologia: dall’Italia fascista e la Germania nazionalsocialista all’Argentina del Mundial ’78, fino ad arrivare alle pratiche di sportwashing a cui fanno ampiamente ricorso nazioni autoritarie come Russia, Cina, Qatar e Arabia Saudita.

Dall’altro lato, invece, lo sport, ed il calcio in particolar modo, è un terreno di conquista difficile per il potere, soprattutto quando questo ha radici profonde e salde. Le tifoserie sono i capisaldi della controcultura, dell’opposizione, della ribellione all’autorità costituita. Il loro amore incondizionato ai colori del proprio club non è compatibile con la fedeltà e l’obbedienza cieca che un’autocrazia richiede e questo rappresenta una spina nel fianco dolorosa per qualsiasi regime.

Hồ Chí Minh, per esempio, fondò il Partito Comunista nordvietnamita mentre assisteva ad una partita di calcio ad Hong Kong. Nel 1996 una feroce rivolta in Libia nacque a seguito di un gol ritenuto irregolare assegnato al figlio del dittatore Gheddafi. Nelle repubbliche sovietiche con maggiore spinta indipendentista, come Armenia e Lituania, le vittorie contro le squadre moscovite diventavano occasioni per convogliare il dissenso contro il pugno di ferro di Mosca con marce e canti che in altre occasioni sarebbero stati impossibili. Senza parlare della Spagna franchista, dove il calcio era il volto dei sentimenti oppositori ed indipendenti di catalani e baschi, allora come oggi.

Facciamo però un passo indietro a livello cronologico e spostiamoci un poco geograficamente. Siamo in Germania Est, a Berlino. Il muro non è ancora in piedi, ma a dividere in due il paese e la città vi è il ricordo fresco e lancinante della guerra. Le macerie ingombrano ancora le strade e la ricostruzione sembra lontana, certamente non aiutata dalle crescenti tensioni fra i due blocchi. All’alba della guerra fredda Berlino è una città frammentata e spartita tra le potenze vincitrici occupanti. In uno dei suoi distretti più settentrionali, quello di Pankow, nel 1948 nasce colui che diventerà il nemico di stato più particolare della storia della DDR: Helmut Klopfleisch.

Prima della Stasi, prima dei fascicoli segreti della polizia politica, dei controlli al confine e dell’espulsione dal paese, Helmut è un bambino come tanti altri a Berlino. Proviene da una famiglia normale, di estrazione popolare e senza grosse particolarità. Vi è, in realtà, una figura peculiare: suo nonno, fortemente anti comunista e tifoso dell’Hertha BSC.

Quando si descrive una persona la squadra tifata sembra un dettaglio banale, quasi trascurabile, ma non sarà così nel caso di Herr Klopfleisch. L’Hertha diventa passo dopo passo un caposaldo della sua vita, del suo essere e della sua personalità. Il biancoblu lo rapisce in maniera feroce e passionale, per non abbandonarlo mai più in una storia d’amore che si snoda attraverso il lungo regime oppressivo di stampo sovietico.

In principio fu il vecchio Plumpe, lo stadio che l’Hertha frequenterà fino alla costituzione della Bundesliga nel 1963. I seggiolini dello Stadion an Gesundbrunnen a pochi minuti da casa ospitano un appuntamento immancabile per Helmut Klopfleisch e suo padre.

Una ritualità contagiosa e tenace come solo un ricordo di infanzia può essere. Settimana dopo settimana Die Alte Damme si impossessa della mente del ragazzo. Proverà pure la carriera da calciatore, ma senza fortuna. Mancava il talento, ma non era un problema. Finché, all’improvviso, mancò anche l’Hertha.

Il 13 agosto 1961 la città si ritrova tagliata in due da quello che il regime della Repubblica Democratica Tedesca definirà Antifaschistischer Schutzwall. Il resto del mondo lo chiama più semplicemente Muro di Berlino, simbolo della stagione della Guerra Fredda e della cortina di ferro che è calata sull’Europa. Nella narrazione canonica della storia solitamente non c’è posto per i drammi personali della gente comune. Infatti spesso si ignora l’effetto umano di questo evento. Famiglie spezzate, amici divisi, amori troncati e soffocati da una lunga colata di cemento, filo spinato e cavalli di Frisia.

Helmut Klopfleisch è uno degli innamorati che il Muro colpisce. È un adolescente, ha tredici anni, ma la sua bella berlinese è una Vecchia Signora che si tinge solitamente di bianco e di azzurro. Parliamo, ovviamente, dell’Hertha. Il ragazzo non si rassegna alle imposizioni del regime. La posizione dello stadio, proprio a ridosso del famigerato muro, aiuta del resto a mantenere ardente la sua passione.

Quando il Plumpe si riempie e iniziano le partite molti tifosi della parte orientale della città si raggruppano lungo il muro, vicinissimo al vecchio impianto casalingo dell’Hertha. In migliaia ascoltano la folla vociare, gridare ed esultare, tentando di capire cosa sta accadendo in campo. Ovviamente la Stasi non apprezza molto questo genere di riunioni. Identificazioni, perquisizioni, interrogatori e pressioni politico-sociale sono sufficienti a far calare in maniera rapida ed inesorabile i tifosi. Helmut, però, resiste, assieme ad un manipolo di amici.

L’amore per quei colori e la soddisfazione nel ricevere le saltuarie visite di calciatori, dirigenti e staff dell’Hertha che si affacciavano oltre la cortina di ferro per ringraziare i tifosi valgono il rischio di una lavata di capo da parte della polizia politica. Helmut Klopfleisch da ora in poi diventa K.; il suo nome in codice finisce nei fascicoli segreti del regime, che gli saranno resi disponibili una volta caduta la DDR.

Il rituale dell’ascolto del Gesundbrunnen Stadion, però, non è destinato a durare. Non è il timore della repressione ad avere la meglio, ma più semplicemente la nascita della Bundesliga obbliga l’Hertha, campione in carica della Regionalliga berlinese, a trovarsi una nuova casa a partire dalla stagione 1963/64. Il vecchio Plumpe ormai è vetusto ed inadeguato. In più, la sua vicinanza al confine, fra i due mondi ideologici, non piaceva ad Ovest come ad Est: sarà demolito per far posto ad anonimi palazzi grigi, mentre nel frattempo l’Hertha si sposta ancora più ad Ovest, ancora più lontano da Klopfleisch.

La distanza mette a dura prova l’amore. Helmut affronterà un lungo calvario prima di tornare a vedere l’Hertha giocare una gara casalinga. Nel frattempo, però, la vita va avanti. Il ragazzo diventa uomo. Trova inizialmente un impiego presso la Compagnia Elettrica dei Lavoratori. Alcune vicissitudini lo porteranno tuttavia al licenziamento e a cambiare settore, dedicandosi alla pulizia professionale di vetri, eccezionalmente per una ditta privata. La Stasi continua a monitorarlo, mentre il suo fascicolo rimane frequentemente aggiornato.

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Un vero tifoso (fonte: profilo X dell’Hertha)

Gli uomini in grigio della DDR non riescono a inquadrare Klopfleisch. Sembra una persona comune, normale, probabilmente un po’ troppo estroversa ed espansiva, ma la sua completa estraneità al dibattito politico desta sospetti. Helmut continua a apparire nei rapporti dei servizi di intelligence, ma sempre quasi in maniera casuale se non addirittura ai limiti del grottesco. È fra i membri fondatori della Hertha Society, un gruppo di tifosi che si ritrova per scommettere; in realtà è un club di appassionati della Alte Damme che a volte riceve visite da influenti personalità del mondo Hertha: dirigenti, allenatori, qualche calciatore. Arrivano a definire il gruppo un portafortuna, ma questo continuo contatto con il mondo occidentale non può essere tollerato.

Le pressioni della polizia portano alla progressiva inattività del gruppo, ma questo non scoraggia Klopfleisch. Nonostante i ripetuti interrogatori non tradisce i compagni del gruppo. Con ogni probabilità, è in questo modo che perde il suo lavoro alla compagnia elettrica. Helmut ovviamente la prende con filosofia. Carattere gioviale e positivo, ne approfitta per sistemare una casetta di famiglia poco fuori città. Un’oasi di pace lontano dalle isterie del governo, dove rilassarsi e staccare la spina dalla sua mansione di lavavetri.

Lavora in proprio o quasi, per cui può decidere del suo tempo in maniera piuttosto indipendente. Quasi per caso nella sua “Little California”, nomignolo della sua casetta di campagna, Helmut inizia a smanettare con la radio. Inizia a captare i segnali della Germania Ovest, ma non è la politica o altro che gli interessa. Vuole solo sapere di più sul pallone, sul suo Hertha, sul Bayern Monaco di Müller e Beckenbauer, sul Manchester United che ammira tanto, ma soprattutto sul suo idolo Dennis Law, di gran lunga il suo calciatore preferito.

Insomma l’affresco è quello di un uomo certamente poco avvezzo all’obbedienza, ma sicuramente non un sedizioso o un rivoluzionario. Helmut Klopfleisch è un fervente appassionato di calcio; la sua febbre d’amore per il gioco, però, è soffocata da un regime dispotico che gli preclude di vedere il suo Hertha. Lo sport è la molla che muove Klopfleisch. E la postura del regime federale lo spinge sempre più verso il dissenso, seppur in un modo quantomeno unico.

I dissidenti del football, colpevoli di aver festeggiato le vittorie dei nemici della Germania Ovest in occasione dei Mondiali del 1954 o del 1970 addirittura con petardi e fuochi d’artificio, sono un gruppo piuttosto ampio. Helmut Klopfleisch fa parte di questo microcosmo sin da subito, grazie alla guida del nonno, ma soprattutto alla sua presa di coscienza sulle bugie e sulle costrizioni del regime. Ha ricordato spesso di come ebbe vissuto il miracolo di Berna del ’54: con il naso appiccicato alla vetrina di un negozio di televisori, tifando i tedeschi come un indiavolato.

Questi dissidenti non hanno una vera e propria connotazione politica. Idealmente, però, la repulsione per la DDR e per le sue politiche diventa evidente con il crescere delle costrizioni e dei controlli. Helmut, o K. se preferite la versione dei servizi, definisce il giorno della vittoria della Germania Est sugli occidentali nella Coppa del Mondo 1974 (che noi abbiamo raccontato qui) come il giorno più brutto della sua vita, addirittura peggiore della scomparsa della amata madre nel 1989.

Le gare della Nazionale sono un interessante palcoscenico per Klopfleisch. Segue la Germania Ovest in tutte le trasferte nell’Est, giustificandole come viaggi familiari ed eludendo così i divieti. In una trasferta a Varsavia riesce ad agganciare il tecnico della Germania Ovest, Helmut Schön. Cenano insieme e a fine serata, davanti ad una bottiglia di vodka, brindano alla Germania unita. A Sofia, in Bulgaria, riceve una nota di biasimo per comportamento antipatriottico e sovversivo a causa del suo tifo spudorato per i tedeschi occidentali. Nel 1985, invece, incontra Franz Beckenbauer a Praga e gli regala un orso di peluche. Un oggetto che, dietro la sua apparenza innocua, sprigiona in realtà un messaggio politico di straordinaria potenza.

Non potendo seguire il suo Hertha, Helmut cerca di vedere quante più partite possibili di squadre del blocco occidentale. Ovviamente, quando il Manchester United di Sir Matt Busby e dell’idolo Dennis Law liquidava 0-2 il Vorwärts Berlin, Klopfleisch era in prima fila a supportare i Red Devils. Era il 1965, primo turno di Coppa dei Campioni. 

Approfittava spesso delle avventure europee della Dynamo, gli odiati rivali soprannominati “11 maiali” per la loro appartenenza alla polizia. Era presente quando l’Aston Villa regolò per 1-2 i campioni tedeschi orientali nella Coppa dei Campioni 1981/82 grazie ad una doppietta di Morley, oppure quando il Liverpool impattava 0-0 sempre con i gialloneri. Presto, però, si rese conto che, per quanto oltrepassare la cortina di ferro non fosse possibile, avrebbe potuto comunque seguire le squadre occidentali durante le trasferte nei paesi del Patto di Varsavia. Un modo, finalmente, per saziare la sua fame di calcio.

Il 21 marzo 1979, poi, il destino gli fa un regalo. Per la prima volta in tre decadi Helmut Klopfleisch può assistere ad una gara del suo amatissimo Hertha Berlino. Sono i quarti di finale di Coppa UEFA e i berlinesi se la vedono con il Dukla Praga, squadra del regime filo sovietico, odiata quanto la Dynamo a Berlino. Una partita unica e irripetibile, con le semifinali di coppa a portata di mano dopo il pareggio per 1-1 al termine dei 90 minuti di gioco.

Un’occasione d’oro per K., anche per il valore ideologico della sfida. La Stasi lo sa bene e predispone pedinamenti e controlli ai confini per impedire al “dissidente” ed ad altri come lui di assistere alla partita. Le lunghe code di persone al confine a cui viene rifiutato l’uscita dal paese sono inequivocabili, la libera circolazione delle persone è vista come un grave pericolo per il regime.

Helmut, però, è sufficientemente astuto (o incosciente) e gabba comunque i servizi segreti con la complicità della madre. Anziché cercare di uscire dalla Germania in direzione sud, andando direttamente in Boemia, Klopfleisch si avvia verso il confine con la Polonia, convincendo le guardie di confine a concedere il visto per permettere alla madre di visitare la casa natia, situata proprio oltre confine. Una volta in Polonia, poi, punta a sud. Entra senza troppi problemi al Juliska Stadion per godersi tanto la vittoria dei biancoblu per 1-2, con reti di Agerbeck e Milewski, quanto gli sguardi increduli degli agenti che lo vedono arrivare a godersi la qualificazione alle semifinali europee.

Come se ciò non fosse sufficiente, il sempre ben inserito Helmut risulta essere un buon amico dell’autista del pullman del club berlinese, Manfred Semmler. Così conclude la sua trasferta a Praga con un bel giro sul mezzo della squadra di Kuno Klötzer, passando qualche piacevole ora in compagnia dei suoi beniamini. L’avventura continentale della Die Alte Damme si concluderà a Belgrado contro la Crvena zvezda, poi sconfitta in finale dal Borussia Mönchengladbach.

Lo scherzetto di Praga non è affatto gradito dal regime e Klopfleisch finisce sotto un regime di sorveglianza ancora più stretto. Gli agenti della polizia segreta, però, non trovano comunque prove di una sua attività sovversiva. Nel 1981, alla fine, si consuma il primo grande momento di tensione fra il governo della DDR e il tifoso berlinese. L’occasione è, ancora una volta, una gara internazionale.

Il 18 marzo il Bayern Monaco affronta nei quarti di finale di Coppa dei Campioni il Baník Ostrava. La gara finisce 2-4 per i bavaresi, che accedono così alla semifinale. Fuori dal campo di gioco, però, si sente un gran trambusto. La polizia cecoslovacca, infatti, non esita a mettere mano ai manganelli dinanzi all’hotel del Bayern per disperdere i tifosi ospiti, colpevoli di voler sostenere ed incoraggiare i loro idoli. Violenza e repressione che probabilmente sarebbero passate inosservate, se non fosse stato per un tifoso che, dall’albergo di fronte, riprende il tutto con la sua telecamera. Dietro la macchina da presa, ovviamente, vi è Helmut Klopfleisch.

Questo episodio fa guadagnare al tifoso berlinese la gratitudine del Bayern. Per ringraziarlo, la società bavarese vorrebbe regalargli la divisa usata proprio nella gara in questione da Karl Heinz Rumenigge. Qualora fosse stata effettivamente donata, però, le istituzioni locali avrebbero immediatamente sequestrato la maglietta in quanto “elemento di sedizione capitalista occidentale”.

Fritz Scherer, presidente del Bayern, è tuttavia un uomo di parola. Attraversò personalmente il confine fra le due Germanie per consegnare a Klopfleisch la divisa del centravanti, indossandola sotto la sua camicia per sottrarla ai controlli alla dogana. Il ricordo di Scherer che, in un bizzarro spogliarello nel corridoio di casa Klopfleisch, passa la maglia ad Helmut rimane uno degli aneddoti più divertenti nella storia personale del tifoso. Una risata che, però, inizia ad avere un retrogusto amaro.

La fine della Germania Est e del blocco sovietico inizia ad essere una realtà sempre più concreta e vicina. E quando una bestia è ferita diventa ancora più pericolosa. La Stasi del tenente Hoyer mette Helmut sempre più sotto pressione. Aumentano gli interrogatori, gli obblighi di firma, i divieti di trasferta e l’obbligo di comunicare ogni spostamento alla polizia. La situazione a Berlino Est diventa anno dopo anno sempre più insostenibile, fino al 1985. L’affaire del peluche donato a Beckenbauer sembra la goccia che fa traboccare il vaso.

L’ennesimo arresto stavolta si traduce nella dichiarazione in “nemico dello stato”. Le autorità ritirano la carta di identità ad Helmut; il suo status sociale è equiparato a quello dei criminali sessuali, gli viene proibito di partecipare ad eventi sportivi. La vendetta del regime coinvolge pure la famiglia, il figlio Ralf in particolar modo. Nonostante i buoni risultati accademici è costantemente discriminato per “mancanza di spirito operaio o contadino”. Avrebbe anche un discreto talento per il calcio, ma in un campeggio militare si lesiona gravemente la caviglia e i legamenti. Non può accedere all’assistenza medica in quanto nemico di stato e perde ogni possibilità di diventare atleta professionista a causa della mancanza di cure. La Stasi cercherà di corrompere il ragazzo per avere informazioni sul padre, ma invano.

Helmut si ritrova privato della sua unica passione, il calcio. Privato della assistenza medica per la sua famiglia, dei suoi diritti di lavoratore e sotto la pressione della polizia. È privato pure della sua seconda casa, la Little California tanto amata, che il regime gli sottrae arbitrariamente per darla in dono ad un funzionario di polizia, Helmut prende una decisione drastica e definitiva: richiede di poter lasciare il paese. È il 1986. Manca poco alla fine del tunnel, ma Klopfleisch non lo può immaginare. Non può immaginare anche fino a che punto potrà spingersi la durezza del regime.

La sua richiesta, inizialmente rifiutata, è successivamente rivalutata e definitivamente accettata nel 1989, a pochi mesi dalla caduta del Muro. È il 29 giugno. La madre di Helmut è in condizioni critiche, a pochi giorni dalla morte. L’uomo implora i funzionari della Stasi di poter rimandare la partenza almeno di qualche giorno, per poter dire addio la madre. La polizia, però, è inflessibile: alle ore 22 la famiglia Klopfleisch deve essere al confine. Quattro giorni dopo la signora Klopfleisch morirà, senza che il figlio potesse darle un ultimo saluto.

Helmut è obbligato a lasciare il paese e si ritrova incastrato in un campo profughi per quasi un anno, espulso dal suo paese natale ed impossibilitato a muoversi verso altri lidi. Il Muro cadrà poco dopo e nulla sarà più come prima per il mondo, ma anche per Helmut.

Il 6 ottobre 1990 Helmut Klopfleisch, il dissidente K., il nemico pubblico, ex elettricista, ex nemico dello stato, radioamatore ed appassionato calciofilo chiude un importante cerchio nella sua vita, entrando per la prima volta all’Olympiastadion, casa del suo Hertha BSC, dopo quasi trent’anni dall’ultima volta che aveva potuto vedere il suo club all’opera pareggiando 0-0 contro il Colonia. Dopo tanta sofferenza, dopo le costrizioni, i sospetti, gli interrogatori, i pedinamenti, gli arresti, i segreti ed i sotterfugi la libertà pare essere finalmente tornata a casa Klopfleisch.

Come un milite di ritorno dal fronte Helmut si trova un po’ spiazzato. Il calcio, che per decenni era stato il motore della sua vita, del suo entusiasmo e dei suoi stratagemmi per eludere le autorità, all’improvviso diventa quasi troppo accessibile per un uomo abituato a fare i salti mortali per poter assistere ad una partita. Il Mondiale 1990, il primo vinto dalla Germania unificata, è il premio al lunghissimo percorso del tifoso che più di tutti ha dimostrato la volontà di libertà di quella parte di Germania rimasta oltre la cortina di ferro, oltre le colate di cemento e imbrigliata da spie e regime di polizia. 

Helmut viaggerà per il mondo seguendo i colori del suo cuore: Hertha, Germania e anche il Bayern, club a cui finirà per essere molto legato durante i ventotto lunghi anni di dittatura, grazie alle tante gare giocate dai Mia-san-Mia oltrecortina. Le sue peripezie, la sua giovialità e la sua sana e genuina passione per il calcio lo rendono un personaggio noto nell’ambiente.

Può chiamare amici alcuni dei più grandi calciatori della storia tedesca, come Vogts, Klinsmann, Breitner o anche il tennista Boris Becker. Più peculiare ancora la sua storia con il Kaiser Beckenbauer. Da quella foto dell’85 che cambiò la storia personale di Helmut nacque un’amicizia cementata sui campi da golf. Non male per un dissidente e un uomo considerato feccia della società dal suo stato.

Oggi Helmut Klopfleisch è un arzillo ultra settantenne, amato e rispettato nel mondo del calcio tedesco. Nel 2012 è stato nominato Herthaner dell’anno e fa parte di una ristretta cerchia di saggi anziani che hanno lo scopo di mantenere vivi spirito e tradizioni del club capitolino. Ha qualche rimpianto: non riesce a digerire il fatto che non gli sia mai stato concesso lo status di vittima della Stasi. Un tema di principio per lui, che per ventotto anni ha vissuto sotto il tallone della polizia politica, braccato, controllato e perseguitato.

Non si può non notare la sua stanchezza nelle ultime uscite pubbliche, nonostante mantenga quel piglio vivace ed esuberante che lo ha sempre caratterizzato. Durante la sua intervista a cuore aperto con il giornalista olandese Simon Kuper, autore del libro “Football and Power”, Helmut si è espresso così sul lungo periodo vissuto in dittatura:

“Una partita dura 90 minuti, questa invece è durata una vita intera”.

È tempo di riposare, Helmut. Grazie per aver amato il calcio così tanto, grazie per la testimonianza di resistenza umana davanti alle brutture ideologiche. Anche nella semplicità della passione sportiva alberga il germe della giustizia, della libertà ed in fin dei conti dell’umanità.

Aver resistito così tanto, solo davanti al mostro della dittatura, di un regime soffocante e spietato deve essere stato sfiancante. Lascia che noi raccogliamo il testimone di questa lotta, perché dove il pallone rotola, c’è sempre una scintilla di bene.


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