Una data funesta per il mondo del calcio. Il 25 novembre di 15 anni fa ci lasciava George Best. Il 25 novembre di quest’anno ci ha lasciato Diego Armando Maradona.
Se la grandezza di un Dio si misura in base a quanto sia venerato dai suoi fedeli, allora forse Maradona e Best sono stati molto più che semplici divinità. Maradona e Best, infatti, furono Dei. Dei sporchi e impuri, macchiati da quell’imperfezione tipica dell’umanità. Dei imperfetti, che troppo spesso ci sono apparsi arroganti, egocentrici, donnaioli, alcolizzati, drogati, pigri, ma pur sempre Dei. Dei ai quali il 25 novembre sarà sempre consacrato. Gli Dei più umani mai visti su questa terra.
Il pallone come un figlio
George e Diego non sono stati il calcio, sono stati molto di più. Non hanno cambiato le regole del gioco, hanno cambiato il gioco. C’è stato un calcio prima di loro e ce n’è stato un altro dopo il loro passaggio. Sono entrati nell’immaginario collettivo, ridisegnando l’idea popolare del calciatore, creando un nuovo modello di giocatore ideale innalzato a livelli forse irraggiungibili.
Tutti si rivolgono al pallone con un rispetto, anzi, timore referenziale, sottomessi all’imprevedibilità della sfera e alle sue dinamiche, dandole del lei. Loro no. George prima e Diego poi sono stati tra i pochissimi a rivolgersi al pallone dandogli del tu. Loro erano in grado di gestire la sfera, accarezzarla, delicatamente condurla, sedurla, accarezzarla e coccolarla come e quando volevano.
Maradona e Best trattavano il pallone proprio come se fosse un figlio. Erano padri premurosi, saggi, esperti. Genitori amorevoli che sapevano sempre cosa fosse meglio per il loro bambino. Sceglievano con cura come educarlo e a chi affidarlo, ma soprattutto lo amavano più di ogni altra cosa al mondo. Un amore ricambiato, ovviamente. Come si fa a non ricambiare un amore del genere?
Scrivere la storia con i piedi
Quando qualcuno ti trasforma in uno strumento di magia con il quale incantare ed emozionare milioni di persone non puoi che amarlo, apprezzarlo, fidarti ciecamente di lui e lasciarti cullare dalla delicatezza e la sensibilità dei suoi piedi. L’argentino e il nordirlandese hanno trasformato la palla in una splendida penna e i campi nella carta più bianca e pregiata che potesse esistere. Maradona e Best hanno rivoluzionato la storia, scrivendola per la prima volta con i piedi e non con le mani. Un amore platonico, idealizzato, fortissimo. Un senso di gratitudine vicendevole di chi è consapevole di esser diventato grande. Una grandezza influenzata in modo bidirezionale. Non ci sono Maradona e Best senza calcio e non c’è calcio senza di loro.
Un amore più grande di qualsiasi altra cosa, persino per l’amore per loro stessi che ci siamo ritrovati a criticare così tante volte. Quante volte abbiamo puntato il dito contro il loro egocentrismo? Abbiamo mai provato a vestire i loro panni, ad indossare le loro stesse scarpe e a provare le loro stesse emozioni?
Immaginatevi di non avere nulla, di avere fame e non solo di gloria. Immaginate di dover combattere per sopravvivere in mezzo a quartieri poverissimi dove la delinquenza è l’unica opzione. Immaginate di uscire da quella situazione grazie a voi stessi, gli unici punti di riferimento che avete sono i vostri piedi e la voglia di diventare grandi, nient’altro che questo.
Quando dopo tutto questo, riesci ad arrivare più in alto di tutti e riesci minimamente a renderti conto di chi sei, il potere e l’influenza che hai, non c’è niente di più difficile di rimanere con i piedi per terra.
Come può un Dio restare ancorato nella sua posizione così terrena legata all’umanità?
Così divini, così umani
Quando si arriva così in alto, le tentazioni arrivano da qualsiasi angolo in modo continuo ed incessante. Oscar Wilde scriveva che l’unico modo per liberarsi da una tentazione è cedervi e i nostri Dei in queste situazioni hanno rivelato tutta la loro fragilità legata a quella condizione così umana che li rendeva unici. La verità è che la loro follia, i loro vizi, i loro difetti, le sfaccettature meno belle delle loro personalità è paradossalmente croce e delizia della loro vita.
Chissà, magari con una condotta da atleta Best non avrebbe praticamente smesso a 26 anni, e Maradona avrebbe potuto deliziarci della sua classe anche durante i mondiali di USA ’94, ma senza quella follia, quella sregolatezza che sempre si accompagna con il termine “genio” forse non avremmo avuto quell’audacia che mettevano in campo. Rimpiangere il passato è inutile, Bukowski scriveva: “Non lasciatevi ingannare dalla nostalgia, non poteva essere nient’altro, altrimenti lo sarebbe stato“.
Così diversi, così simili
Il 25 Novembre è senza dubbio la giornata più triste di sempre per il mondo del calcio. Sembra uno scherzo, sembra che quei due si siano organizzati per andarsene lo stesso giorno. A loro non piaceva essere tristi e odiavano le persone tristi, forse è per questo che hanno scelto questo maledetto 25 Novembre, per poter concentrare il dolore e la tristezza in unica giornata anziché due.
Diego e George, così diversi e pure così simili. Campioni dentro al campo e uomini fuori, nonostante tutto. Dei complementari, quello che non ha vinto George lo ha vinto Diego e viceversa.
Diego non ha mai sollevato la Champions League al cielo, cosa che ha fatto Best a Wembley nel ’68.
Best non ha mai vinto la coppa del mondo, vinta invece da Diego in Messico nell’86.
George col vizio dell’alcool, Diego della droga. Purtroppo, complementari anche in questo.
Si dice che muoiano gli uomini, ma non le idee, che muoiano i poeti, ma non le poesie. Grazie a loro il calcio non morirà mai e neanche la loro leggenda.
Ciao Diego, ciao George. Grazie di tutto.
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Immagine di copertina a cura di Alessandro Agace