Molto più che una partita di calcio: in ballo c’è l’orgoglio di due popoli che non si sono mai amati, Inghilterra e Scozia.
No: quella fra Inghilterra e Scozia non è stata e non sarà mai una partita come le altre. Non lo è per i tifosi e nemmeno per la gente comune, mentre i giocatori inglesi avevano annunciato il giorno prima che avrebbero giocato senza pressioni e come contro un qualunque altro avversario. Risposta sbagliata. Lo 0-0 dell’ultima sfida parla chiaro: sa di vittoria per la Nazionale con la croce di Sant’Andrea e di sconfitta per la Nazionale con la croce di San Giorgio. Il primo, importantissimo, punto della Scozia nell’Europeo 2020 arriva sul rettangolo verde dell’odiato Wembley. 2.000 biglietti venduti agli ospiti e altrettante voci che si fanno sentire per 90 minuti. 30.000 i figli di “Braveheart” arrivati dal nord del Vallo di Adriano a colorare di blu le strade londinesi.
0-0, con la Scozia che fa la Scozia e l’Inghilterra che, sì, fa l’Inghilterra. La classica parabola della squadra con grandi speranze che impatta e fallisce sembra realizzarsi di nuovo
Gli inglesi rimangono imbrigliati nel possesso palla della solida formazione allenata da Steven Clarke. Un Southgate che appare confuso nelle scelte tattiche e nei cambi. Un Kane che sembra il fantasma di se stesso. Un McTominay che si erge a gigante e diga delle retrovie. Uno 0-0 che riaccende la speranza di qualificarsi alla fase successiva per gli unicorni, mentre è monito ai Tre Leoni di rialzarsi e combattere fino al 90°.
Auld Enemy: il vecchio nemico dell’Inghilterra
L’acerrimo nemico. Nonché il nemico attuale, coi venti d’indipendenza mai sopiti che tornano a soffiare da Inverness fino a Westminster, a spingere la richiesta di Nicola Sturgeon di indire un nuovo referendum per la separazione. Una convivenza sotto la Corona mai troppo accettata, che divide gli stessi scozzesi – vedasi alla voce Old Firm di Glasgow tra cattolici e unionisti – e che con la Brexit è diventata ancora più scomoda. Il nemico colonizzatore irriso da Irvine Welsh nel famoso monologo di Trainspotting, in cui il personaggio di Mark Renton sfoga la propria frustrazione, affermando quanto sia una merda essere scozzesi e definendo gli inglesi indecenti mezze seghe.
Non è mai stata una sfida come le altre e alcuni precedenti parlano chiaro: il 2 marzo 1878 la Scozia batte l’Inghilterra per 7-2; onta ripagata nel 1961, quando il favore viene restituito con un clamoroso 9-3. Nel 1977 la Tartan Army invade il vecchio Wembley e spinge i suoi beniamini ad un pesantissimo 1-2, con tanto di invasione di campo e zolle d’erba strappate e portate via per ricordo. In tempi più recenti, la penultima sfida risale al 2017: trattasi di un pareggio rocambolesco in quel di Glasgow, ottenuto al 93′ dalla formazione di Gareth Southgate, nell’ambito delle qualificazioni al Mondiale di Russia 2018.
La “dentist chair” dell’Inghilterra
Ma il precedente, l’unico nella storia del torneo, che puntualmente torna alla memoria è quello relativo agli Europei giocati in Inghilterra nel 1996. L’anno in cui il calcio tornò a casa, dove è stato inventato, con la speranza di portare con sé anche un titolo che invece non è ancora arrivato. L’anno in cui nacque la canzone “Three Lions” di David Baddiel, Frank Skinner e The Lightning Seeds, il cui ritornello “It’s coming home” è diventato un cult. Brano aggiornato e riproposto ai Mondiali di Francia ’98 e divenuto un evergreen da cantare a squarciagola ad ogni partita di ogni competizione, che vede protagonista appunto la nazionale dei Tre Leoni.
Corre l’estate 1996, dicevamo, e la vigilia è infiammata dai titoli dei tabloid d’oltremanica che puntano il dito sulle gesta alcoliche di Gascoigne, McManaman e compagni. Laggiù, nel ritiro in terra asiatica, si alternano su una sedia da dentista e si fanno letteralmente innaffiare di alcool dagli altri: chi non regge, paga.
E il 15 giugno, dopo un pareggio scialbo con la compagine svizzera, la nostra banda di presunti alcolizzati si aggiusta gli scarpini e sale in cattedra proprio contro l’Auld Enemy: il capitano scozzese McAllister sbaglia un rigore, Shearer segna il primo gol, Seaman para tutto il parabile e lui, Gazza, schiocca un pallonetto da maestro, firma il 2-0 e va a festeggiare. Si butta per terra mentre tutti i compagni lo innaffiano di acqua, tra le risate generali. Quasi a volersi vendicare dei media: “Scusa, dicevate? Ah sì, siamo i “Disgracefool”, quegli scemi di due settimane fa. E oggi abbiamo vinto”.
Una serata diversa
Nel pomeriggio di due giorni fa, nulla. Nessun guizzo geniale, nessuna strafottenza, nessun riverbero di sentimento nazionalista, nessun colpo di classe. Una superiorità presunta, solo sulla carta. Foden, Grealish e gli altri non hanno inciso né brillato. Chissà che non avesse ragione Paolo Di Canio, che ai microfoni di Sky Sport, nel pre-partita, aveva espresso la sua perplessità riguardo la diversa mentalità e il diverso modo di prepararsi a partite di questo tipo da parte di questi giovani ragazzi, meno attaccati agli ideali di contorno una sfida del genere.
Squadra senza anima contro squadra solida. Tutto rimandato ai prossimi 90 minuti per decidere il destino di entrambe. E intanto, per stavolta, è stato un po’ meno una merda essere scozzesi. Se avessero dichiarato legale la birra analcolica, i ragazzi in kilt, per festeggiare, si sarebbero sparati pure quella, parafrasando ancora una volta Irvine Welsh. Magari cantando a gran voce “Yes Sir I can boogie, boogie woogie all night long”. Stavolta i Fiori di Scozia hanno l’orgoglio in petto per questo pareggio che sa di vittoria, per aver fermato e messo in difficoltà l’eterno nemico. E come direbbe De André: al Dio degli inglesi non credere mai.
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