Joachim Löw lascerà la guida della Mannschaft dopo Euro 2020(+1). Ma c’era davvero bisogno di un ultimo valzer per l’allenatore tedesco?
Jürgen Klinsmann è attonito. A Dortmund, l’Italia ha appena segnato il gol della staffa, è il 4 luglio 2006.
Nessuno si aspettava quel crollo, in un Mondiale casalingo da vincere a tutti i costi. Poco importa che la Germania non fosse lo schiacciasassi decantato sui giornali locali. La selezione teutonica non avrebbe mai potuto fare un sol boccone degli Azzurri. Lo sapevamo noi, sempre prodighi quando si tratta di spegnere le speranze tedesche su un campo di calcio. Non poteva riconoscerlo la Pantegana Bionda, nonostante i suoi trascorsi sotto la Madonnina, sponda nerazzurra.
A raccogliere i cocci di quel vaso volato disastrosamente in terra, viene chiamato un giovane allenatore, già da due anni all’ombra dell’ex interista. Proprio Klinsmann aveva voluto con sé Joachim Löw. Un uomo diretto, pragmatico, con una discreta carriera da bomber di provincia negli anni ’80 fra Bundes e Zweite. Formatosi come allenatore in Svizzera, quando ancora tirava calci al pallone, Löw aveva portato lo Stoccarda a vincere una Coppa di Germania nel 1997. Era la squadra di Krasimir Balakov, di Giovane Elber (passato quell’estate al Bayern) e di Fredi Bobic, che nella stagione successiva si sarebbe arresa al Chelsea solo nella finale di Coppa delle Coppe. Per intenderci, nella romantica edizione in cui il Vicenza arrivò sino alle semifinali.
Löw è reduce da un’ottima esperienza in Austria quando si aprono le porte della Mannschaft. Da assistente di Klinsmann, viene promosso capo allenatore dopo la sconfitta di Dortmund. Da quei caldi giorni di luglio, sono passati quindici anni. Solo Óscar Washington Tabaréz, alla guida della Celeste, siede da più tempo sulla panchina di una selezione nazionale di calcio.
Per prima cosa, Löw decide che è tempo di dare una svecchiata alle convocazioni. La sua green revolution coincide con una sterzata, in questo senso, anche della Bundesliga. In poco tempo il campionato tedesco si trasforma da buen retiro di vecchi campioni a fucina di giovani talenti, non solo made in Germany.
Nella prima competizione importante, gli Europei del 2008, è subito argento. Solo un gol di Fernando Torres, regala alla Spagna il secondo alloro continentale ai danni della Germania. Ma l’era Löw è ormai cominciata.
Nelle convocazioni di Sudrafrica 2010, resiste solo Miro Klose fra i giocatori esperti che avevano preso parte all’avventura del 2006. Gli altri reduci sono ancora giovani. Marcell Jansen in difesa (24 anni), Bastian Schweinsteiger (25) e Lukas Podolski (24). Al netto di Janssen, tutta gente che farà parte anche della vittoriosa spedizione in Brasile quattro anni più tardi.
Fra i calciatori di movimento, l’età media non supera i 24 anni. Sintomo di una programmazione perfetta, in cui un gioco mai così fresco e spumeggiante si sposa con una base di calciatori di talento sui quali costruire.
I tedeschi si scontrano però con il punto più alto della generación dorada delle Furie Rosse. El Capi Puyol realizza in semifinale il gol che relega la Mannschaft alla finalina per il terzo posto, vinta con l’Uruguay.
Due anni più tardi, a Euro 2012, è ancora l’Italia, con un Balotelli in formato deluxe, a battere la Germania in semifinale, prima di sbattere contro il muro iberico nell’atto conclusivo della competizione.
I tempi, però, sono maturi per Löw e i suoi uomini. L’appuntamento con la storia è solo rimandato a Brasile 2014, a otto anni esatti dal suo insediamento.
Il trionfo di Joachim Löw
Il clima attorno alla Mannschaft è dei migliori. Ma la sensazione di tutti è che questo debba essere il mondiale del Brasile. L’altra edizione organizzata dalla Seleçao, quella del 1950, era finita con la tragedia, non solo sportiva, del Maracanaço. Il capro espiatorio di quell’inopinata sconfitta contro l’Uruguay nella partita decisiva, fu il portiere del Vasco da Gama Moacir Barbosa. Sessantaquattro anni dopo, la figlia di Moacir chiede a Dani Alves di riabilitare la figura del padre, invitandola al Mineirão di Belo Horizonte per la semifinale contro la Germania. Nessuno si farà più vivo con la signora Tereza, ma il Brasile avrebbe aggiunto un’altra onta alla sua pur gloriosa storia calcistica.
Pronti via e, a Salvador de Bahia, la Germania trova il Portogallo di Cristiano Ronaldo. Thomas Müller, autentico giocatore feticcio del Bayern e di Joachim Löw, inaugura una campagna che lo porterà al top della classifica marcatori col calcio di rigore che porta in vantaggio i tedeschi. Alla fine del primo tempo l’espulsione di Pepe mette la partita in discesa. Finisce 4-0 per la Germania, con tripletta dello stesso Müller e gol di Hummels. La stampa tedesca, dapprima concorde solo nell’incensare il grande assente delle convocazioni, per infortunio, Marco Reus, comincia a credere in una vittoria mondiale che manca da Italia ’90.
La seconda gara è col Ghana, la doccia è tiepida tendente al freddo. Solo un gol di Miro Klose salva i tedeschi da una sconfitta contro i coriacei ghanesi. Il destino mette di fronte nella terza gara Joachim e il suo vecchio amico Klinsmann, ora allenatore degli Stati Uniti. Segna ancora Müller, l’uomo della provvidenza. Passano del resto anche gli americani, per differenza reti sui portoghesi. Tutti felici insomma, all’Arena Pernambuco di Recife.
La Germania ha accumulato sufficiente esperienza, così come il suo tecnico. La maggior parte dei calciatori è nel prime della carriera. Dei suoi fedelissimi, Löw ha perso per strada solo Mario Gomez, improvvisamente entrato nella fase calante della carriera con una serie di infortuni gravi. La rinuncia forzata all’ex Bayern e Fiorentina rilancia la carta Klose di punta, con l’attaccante che insegue il record di Ronaldo del maggior numero di gol nella storia dei Mondiali. Lo supererà, proprio durante il Mineiraço.
Di fianco, da shadow forward, agisce Thomas Müller. Alle loro spalle un Mesut Özil al top della forma. Difesa granitica, Neuer in porta è il migliore al mondo. A centrocampo, insieme a Schweinsteiger, un grande Sami Khedira e Toni Kroos. L’esperienza di una leggenda come Philipp Lahm completa una squadra fortissima nei singoli in ogni reparto, gestita al meglio dal suo tecnico. Cinica, potente, spietata, la Germania di Brasile 2014 è una nazionale in missione. Pressing, gegenpressing e verticalizzazioni rapidissime. La Germania, soprattutto quando non deve fare la partita, appare pressoché imbattibile.
Ma i tedeschi agli ottavi scoprono improvvisamente il mal d’Africa. Come nel 1986, è una selezione nordafricana a frapporsi sul cammino dei teutonici. In quel caso una punizione dai 30 metri di Matthäus fu necessaria per evitare i supplementari contro il Marocco. Questa volta, l’Algeria porta la Germania all’extra time, imponendo lo 0-0 nei 90 minuti regolamentari. Ci pensano Schürrle e Özil a portare la squadra di Löw ai quarti. Scampato il pericolo, i tedeschi superano di misura la Francia, eterna rivale, grazie a un gol di Hummels in apertura, che consente di amministrare il punteggio rischiando solo nel finale, dove però sale in cattedra Manuel Neuer.
In semifinale, come noto, c’è il Brasile, privo di Neymar infortunatosi nello scontro con Zuniga con la Colombia. La Seleçao è senz’anima, i tedeschi infieriscono. Finisce 7-1, una sconfitta imbarazzante, maturata fra le mura amiche, per i Verdeoro. La maledizione casalinga continua, mentre la Germania vola in finale contro l’ennesima sudamericana, l’Argentina di Messi. I tifosi dell’Albiceleste fiutano l’impresa, mentre intonano “Brasil, decime qué se siente…” sulla via verso lo stadio Maracanã di Rio de Janeiro.
La Germania, favorita della vigilia, viene graziata da Higuain a inizio gara. La partita si trascina piuttosto stancamente verso i supplementari. Qui, i tedeschi scoprono di avere risorse di grande valore fra i giovani della truppa agli ordini di Löw. Mario Götze ha appena compiuto 22 anni, ha una fidanzata bellissima che lo aspetta sugli spalti. Sta vivendo il miglior momento della carriera, dopo essere passato dal Borussia Dortmund al Bayern Monaco, per la disperazione del Muro Giallo del Westfalenstadion. Entra al posto di Miro Klose al minuto 87. Giusto in tempo per giocare i supplementari e decidere al 112′ la contesa, con il gol che batte Romero e affonda l’Argentina. Di lì a poco si sarebbe perso per strada, ma potrà sempre raccontare ai nipotini di quella notte brasiliana.
La Germania torna sul tetto del mondo e il suo allenatore smette di essere solo un meme da social a causa dei suoi gesti poco eleganti in panchina. Ora, Joachim Löw è un campione del mondo.
L’ultimo Löw: una storia ancora da scrivere, ma con cattive premesse
Quando sei al top, il difficile è restarci. Ancor più dura, nel calcio, è capire quando lasciare. In questo Löw si è dimostrato senza dubbio carente.
Come diversi allenatori che si sono ritrovati a vincere alla fine di un eccellente percorso di programmazione sportiva, il rinnovamento diventa il vero tallone d’Achille. Joachim ha costruito un progetto vincente a partire dalla crescita dei giovani. Un gruppo coltivato da principio, esploso nei migliori campionati d’Europa, con una Bundesliga all’avanguardia. Diventato grande in Brasile, quando tutti o quasi avevano raggiunto la piena maturazione tecnica e mentale.
La Bundes continua a produrre talenti, ma il tecnico tedesco ha perso la formula magica che gli ha consentito di far funzionare la chimica di squadra. Quel mix di veterani e giovani in rampa di lancio comincia a ritorcerglisi contro. La campagna di Euro 2016 vede la Germania giungere ancora una volta alle semifinali. Ma la Francia di Griezmann si dimostra troppo superiore e persino l’Italia di Conte si era arresa ai tedeschi solo dopo un’assurda lotteria di rigori (ed orrori).
La vittoria in Confederations Cup del 2017 è un fuoco di paglia. Ancora in Russia, solo un anno più tardi, la Germania verrà eliminata ai gironi perdendo contro Messico e Corea del Sud. Sì, anche i tedeschi hanno la loro Corea.
La stampa è pronta a giurare che sarà lo stesso Löw, conscio di aver oltrepassato il limite, a fare un passo indietro. La Federazione, però, gli rinnova la fiducia e Joachim non ne vuol sapere di abdicare.
Neppure la sconfitta per 6-0 contro la Spagna nella nuova Nations League basta a fargli cambiare idea. Ma il tempo è scaduto. Dopo gli Europei, rimandati di un anno a causa della pandemia, l’agonia dell’ultima Germania di Joachim finirà. Hans-Dieter Flick, che ha rotto col Bayern dopo due titoli di Germania, una Champions League e un gioco meraviglioso, ipercinetico con tendenze al parossismo, è pronto a prendere il suo posto.
La Germania vista contro la Francia è sembrata una squadra senza logica. Confusa, macchinosa. Oltretutto, Löw, che non ha più nulla da programmare, è tornato sui suoi passi convocando tutti i calciatori d’esperienza. Müller, Hummels, Kroos, gente che aveva giurato di lasciare a casa in favore di calciatori meno esperti ma futuribili. Fossero ancora in attività Miro Klose e Schweinsteiger, avrebbe convocato probabilmente anche loro.
Nella Germania di Löw persistono i problemi di amalgama riscontrati negli ultimi anni di gestione. Il passaggio al 3-4-3, sacrifica il ruolo di Kimmich sull’out destro ed esclude la presenza di Goretzka a centrocampo, un calciatore apparso altresì imprescindibile nella mediana del Bayern proprio in coppia con Joshua. I tedeschi concentrano tutto il proprio talento a centrocampo e nella fantasia di Havertz e Sané. Ma ci sono troppi doppioni, con interi reparti, come la difesa e le fasce, lasciati invece quasi alla mercé degli avversari. La Francia ha vinto 1-0 grazie ad un’autorete di Hummels, ma l’impressione è che se avesse accelerato minimamente, avrebbe potuto dilagare.
La Germania si giocherà tutto sabato contro il Portogallo. Serve, per la formula del torneo, almeno un punto contro i campioni uscenti, per poi battere l’Ungheria nella terza giornata.
Joachim Löw ha il dovere di condurre i suoi verso porti sicuri. Perché un timoniere non si ricorda tanto per le isole che ha scoperto, ma per le navi che ha contribuito a salvare dal mare in tempesta. Per il sessantunenne allenatore, la vittoria ai Mondiali del 2014 e il contributo offerto alla causa della scuola tedesca, oggi dominante in fatto di panchine, potrebbe non bastare per essere riconosciuto come un vincente. A maggior ragione, i successi nei club di Klopp, Nagelsmann, Flick e Tuchel ne hanno ampiamente oscurato nome e meriti sportivi. In tutta onestà, sarebbe un’ingiustizia dimenticare quanto di buono Joachim Löw ha offerto alla Germania.
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