Estate del 2002, tempo di Mondiali e di sorprese e i calciofili adottarono questa meravigliosa formazione: il Senegal.
Un lancio lungo, una serie di palloni vaganti e mai raccolti e il destino gioca le sue carte, causa un regolamento cervellotico da millennium bug: il Senegal deve dire addio ai Mondiali.
I sogni di un’estate, ricca di delusione e amarezza, distrutti per sempre.
Chi avrebbe mai immaginato che la Turchia potesse qualificarsi in semifinale, eliminando ai tempi supplementari il Senegal, la stessa squadra capace di sconfiggere la Francia campione del Mondo e d’Europa?
Perché amiamo ancora quella squadra?
Sarà per una certa vicinanza spirituale nei confronti delle outsider, sarà per l’eliminazione burrascosa dell’Italia, sarà perché battere la Francia, a due anni dalla dolorosa Rotterdam, poteva bastare per entrare nell’immaginario sentimentale.
Saranno stati il gioco divertente e i buoni piedi dei suoi interpreti, fatto sta che, in quell’edizione della Coppa del Mondo, quando Ilhan Mansiz gira in porta il gol della storica qualificazione turca, il popolo calciofilo del nostro paese rimase profondamente turbato.
Quando si parla di squadra simpatia, personalmente storco il naso, perché è come se si volesse dimostrare affetto, con molta supponenza, a quell’amico imbranato che non rimorchia mai. Il calcio, come l’amore e tutto quel che vi ruota intorno, non è una scienza esatta, l’imprevedibilità è padrona del lassismo emotivo.
Quel Senegal poteva contare su giocatori di buon livello, come Papa Bouba Diop e El-Hadij Diouf, giusto per citarne due. In panchina, Bruno Metsu, era la guida spirituale e tecnica di un gruppo che dovette fare i conti con una federazione ai limiti dell’imbarazzante per organizzazione e mezzi.
In un girone con Francia, Uruguay e Danimarca, i discorsi sulla squadra materasso, o peggio, la squadra simpatia, si sprecano.
Diversi di loro giocano nel massimo campionato transalpino e sono protagonisti con le relative formazioni, eppure, è come se il Senegal non venisse preso troppo sul serio.
Quando Bouba Diop mette in rete, nella partita d’esordio, il principe dei gol rocamboleschi, si evoca quel lontano Camerun – Argentina, con la conseguente favola della nazionale di Roger Milla e le sinapsi dei più vanno in visibilio.
Pensieri sparsi
Ecco, un altro termine abusato fino alla ridondanza: favola. Ma che significa?
Per favola, si intenda una breve vicenda, narrata in versi o in prosa, il cui fine è di far comprendere in modo facile e piano una verità morale.
Sapete qual è l’unico spunto morale a venire in mente al sottoscritto? L’arte della sottovalutazione, il salire emotivamente su un carro per fronteggiare le avversità della vita.
Un continente intero vibra per la felicità, il riscatto africano, solite frasi di circostanza: semplicemente, quel gol rappresentò un punto di svolta per un gruppo di buoni giocatori che, sulle ali dell’entusiasmo, diede il meglio delle proprie potenzialità .
Uno a uno con la Danimarca, tre a tre con l’Uruguay, giocando un ottimo calcio, cinque punti totalizzati, qualificazione insperata agli ottavi di finale. Lì, l’avversaria è la Svezia, che ha eliminato l’Argentina di Bielsa. La bella storia termina qui? No, per una volta, avrà pensato qualcuno, il golden gol è servito a qualcosa. Henri Camara è stato premiato: Dio è senegalese.
Rifacendoci ad un ragionamento intrapreso in precedenza, noi poveri e comuni mortali amiamo il calcio perché riesce a riscattarci emotivamente, ma soprattutto, perché il calciofilo non è che un ragazzino troppo cresciuto, a metà tra Peter Pan e Napoleone.
Che dire, caro Senegal, se non grazie. E scusate per questo mio vaneggiare, ma ogni tanto ho bisogno di lavare i panni in famiglia e depurarmi dall’eccessiva retorica.
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Fonte foto di copertina: https://commons.m.wikimedia.org/wiki/File:C%C3%A9l%C3%A9bration_S%C3%A9n%C3%A9gal_(4).jpg
Fonte: Proprio lavoro, Autore: Jeanpierrekepseu