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Attivista e pioniere: l’inestimabile lavoro di John Moriarty

L’Australia è nel suo complesso una terra ricca di contraddizioni, perennemente in bilico tra porto florido e accogliente e deserto di collegamenti e relazioni. Una nazione che nel suo intricato sviluppo non si è resa certo impermeabile alle controversie. La storia che stiamo per raccontare qui, non a caso, affonda le sue radici in una di queste.

Nel 1938 Kathleen O’Keefe, una donna indigena appartenente alla popolazione degli Yanyuwa, dà alla luce suo figlio. Il padre è John Moriarty, un immigrato irlandese, e da lui prende il nome il bambino. Kathleen, che vive a Borroloola, nei territori del nord, decide che il piccolo frequenterà le scuole a Roper River, a oltre 500 chilometri di distanza da casa.

In un giorno che sembra trascorrere come tutti gli altri, però, John viene caricato su un camion insieme ad alcuni dei suoi compagni di classe e trasportato fino a Mulgoa, nel sud-est del paese appena fuori da Sydney. Non è l’inizio di un agghiacciante caso di cronaca nera narrato da Stefano Nazzi, ma la prassi tipica del governo australiano. John Kundereri Moriarty, in quanto figlio di un’aborigena e di un bianco, per di più cattolico, è un half-caste, quello che un po’ brutalmente definiremmo come mezzosangue. In quanto tale, l’obiettivo dello Stato è che dimentichi la sua cultura d’origine e assimili quella bianca dominante.

La pratica trova la sua origine legale nell’Aboriginal Protection Act diramato dallo stato di Victoria nel 1869. Successivamente, altri decreti nel resto del paese hanno amplificato la portata del fenomeno, poi definito come “Stolen Generations”, proseguito fino agli anni ’70 del 1900. Questo tipo di legislazione, in breve, faceva sì che i bambini di origine aborigena fossero sottoposti alla tutela dello Stato e non più delle loro famiglie. Uno scenario che non sorprende del tutto, se si pensa che addirittura fino al 1967 gli aborigeni non potevano disporre della cittadinanza australiana. Solo nel 2008 il governo del paese, nella persona del Primo Ministro Kevin Rudd, si è scusato pubblicamente con le popolazioni vittime di tali soprusi.

L’adolescenza del giovane Moriarty è scandita da due eventi diversissimi e fondamentali. Nel 1953 il ragazzo, in visita ad Alice Springs, incontra la madre undici anni dopo l’ultima volta. La donna lo riconosce immediatamente e i due trascorrono insieme la giornata. Nel tempo erano riusciti a tenersi in contatto, durante la guerra Kathleen aveva scoperto del suo soggiorno a Mulgoa, e così per via telematica gli aveva inviato dei regali. John Moriarty dichiarerà anni dopo la sua convinzione che si sia trattato di un incontro organizzato, ma sul momento prevalsero gioia ed emozione.

Gli impegni impediscono ai due di vedersi con continuità, ma da allora John si reca quasi sempre dalla sua famiglia per le vacanze natalizie. Del resto, il suo contatto con la cultura d’origine non si è mai del tutto esaurito, alimentato dalle relazioni con i bambini portati via insieme a lui e con alcuni degli adulti incontrati nel percorso.

Qualche tempo prima, nel 1949, una parte dei ragazzi di Mulgoa è trasferita presso la St. Francis House. È una struttura istituita da Padre Smith nel sobborgo di Semaphore, poco distante dal centro di Adelaide. Di fianco all’edificio c’è un campo da calcio e i residenti iniziano a dimostrarsi appassionati e incuriositi. Sul terreno di gioco si allena talvolta la rappresentativa Under 18 dell’Australia Meridionale, il cui tecnico inizia a coinvolgere nelle partitelle di scarico alla fine delle sedute anche questo giovane pubblico. John Moriarty esibisce subito grande dimestichezza con la sfera, ma è inizialmente restio a intraprendere una relazione seria con il calcio. La goccia che scava la roccia sono gli scarpini che riceve in regalo: da lì la sua corsa diventa inarrestabile.

La sua carriera ha inizio nelle giovanili del Port Thistle. Con lui ci sono alcuni importantissimi compagni di viaggio. Jerry Hill, Ernie e Charlie Perkins, Gordon Briscoe calcano lo stesso tragitto da St.Francis House al rettangolo verde. Da ragazzi atletici e vivaci quali sono sperimentano anche altri sport – cricket, rugby e football australiano – ma nel calcio trovano una strana forma di equilibrio interiore. La sua essenza sul territorio dell’isola oceanica è fortemente legata ai gruppi di immigrati europei, soprattutto greci, croati e italiani. In questo contesto i giovani indigeni smarriscono quasi del tutto il disagio che li accompagna nel resto delle loro esistenze. Il calcio li aiuta a sentirsi normali, lontani dall’emarginazione o da quella sensazione di essere una sorta di specie protetta.

Charlie Perkins, Briscoe e Moriarty in particolare dimostrano però anche una certa predisposizione. Il primo è un’ala dalla personalità debordante, atipica. Ad un certo punto tenta la fortuna in Inghilterra, ottiene provini con Liverpool ed Everton per poi accontentarsi di giocare per la compagine amatoriale del Bishop Auckland FC. Briscoe, anche lui attaccante ma con vena da goleador, prova a seguirne le orme, fa esperienza con Barnet e Preston North End, club tutto sommato prestigioso ma con cui non riesce mai a debuttare in prima squadra. La sua giovane carriera è purtroppo condizionata da numerosi problemi fisici che lo convincono a fare ritorno in Australia.

John Moriarty è anche lui un esterno offensivo. Calciatore dotato di grande velocità e coordinazione, a detta di molti dei suoi compagni in gioventù uno di quelli portati per qualsiasi disciplina sportiva. Tutti e tre si ritrovano insieme con quella rappresentativa dell’Australia del Sud che aveva innescato la prima miccia. Con l’Adelaide Croatia, la squadra istituita nel 1952 da una combriccola di immigrati provenienti dalla nazione balcanica.

In carriera Moriarty veste anche la maglia dell’Adelaide Juventus, club dalle evidenti origini italiane. Alla prima chiamata con l’Australia Meridionale, il nativo di Borraloola è emozionatissimo. Il viaggio verso Perth che conduce alla sfida contro l’Australia Occidentale è per lui la prima esperienza su un aeroplano. Per raggiungere la costa Ovest, e quindi passare da uno stato federale all’altro, Moriarty in quanto aborigeno ha necessità di un permesso governativo speciale. Un aspetto di cui non è a conoscenza e che quindi non può minarne la felicità, ma che tempo dopo, scoperto il diretto affronto burocratico alla sua dignità, ne alimenterà la rabbia.

Nello stesso anno, il 1960, Moriarty incide per sempre il suo nome nel libro del calcio australiano. La nazionale di calcio organizza un tour a Hong Kong e John figura nella lista dei convocati. Non era mai accaduto che un aborigeno si ritrovasse a fare parte di una spedizione dei Socceroos. In realtà, l’esordio con la maglia dello stato oceanico per John Moriarty non arriva mai. Il tour è infatti annullato per via di alcune irregolarità compiute dalla Federazione e l’Australia estromessa dalla FIFA per tre anni. Gli infortuni che ne condizionano le stagioni successive, fino al ritiro del 1965, gli impediscono di rientrare nel giro, ma Moriarty scopre per la prima volta un sentiero che nei decenni a venire altri esploreranno.

In campo si può scendere in tanti modi, noi italiani lo sappiamo bene. John Moriarty decide di immolare la seconda parte della sua vita sull’altare dell’attivismo e a tratti anche della politica più istituzionale. Quando è ancora impegnato con la palla tra i piedi partecipa alla fondazione dell’Aborigenes’ Progress Association dell’Australia Meridionale. Negli anni successivi si cimenta in numerosi ambiti, tra uffici e associazioni, sempre a protezione dei diritti delle popolazioni indigene. Dà sfogo anche a un’altra grande passione, alimentata grazie alle opportunità di studio avute da ragazzo, quella per l’arte. Insieme alla moglie Ros, nel 1983, fonda il Balarinji, il primo studio di design dedicato all’arte di ispirazione indigena.

Moriarty però non dimentica mai il suo amore per il calcio. Nel 2011 prende forma la John Moriarty Foundation, gestita assieme al figlio James. L’associazione è dedicata a bambini e ragazzi dai 2 ai 18 anni appartenenti a quelle definite come First Nations, le popolazioni indigene australiane. Ha sede principale nelle zone di Borroloola e Tennant Creek, ma si estende anche alle zone orientali e alle popolazioni isolane dello Stretto di Torres. Il programma nasce per colmare le lacune di stato e Federazione riguardo la diffusione e lo sviluppo del calcio in queste zone. Lo scopo non è solo ricreativo, quindi, ma mira a scovare e formare talenti per poi favorirne l’inserimento in un sistema pre-esistente tramite un percorso mirato.

Il calcio ha senza dubbio un grande compito di socializzazione e trasmissione di determinati valori in contesti remoti e mediamente più poveri, dove talvolta anche i livelli di istruzione sono carenti. La John Moriarty Foundation però, come già accennato, si propone anche di alimentare un eventuale sogno professionistico. Nella pratica, questo avviene tramite il reclutamento di tecnici altamente preparati e l’assegnazione di borse di studio sportive per gli atleti più meritevoli, grazie anche a un legame particolare con istituzioni scolastiche e club della città di Sidney. Nel 2023 la fondazione dà vita alla Indigenous Football Week, un modo per celebrare la cultura aborigena, l’influenza che il calcio può avere sulle popolazioni indigene, e allo stesso tempo continuare ad attirare l’attenzione sulle problematiche ancora esistenti. L’iniziativa trova l’appoggio anche dell’A-League sia maschile che femminile, la maggiore divisione calcistica australiana.

Il riconoscimento della FIFA per il lavoro svolto da John Kundereri (il suo “nome cerimoniale”) Moriarty arriva nel 2018, quando l’ex-calciatore riceve il FIFA Diversity Awards. Il premio più grande, però, è forse la constatazione dei risultati raggiunti con la propria fatica. Shadeene Evans, attaccante classe 2001 del Central Coast Mariners, da Borroloola scala l’Everest del calcio professionistico australiano proprio grazie alla JMF, che nel 2014 le ha permesso di ottenere una borsa di studio. Evans ha guadagnato anche qualche convocazione con le rappresentative giovanili delle Matildas e il suo crescente successo l’ha trasformata nella perfetta ambasciatrice per la fondazione.

Storicamente le popolazioni indigene hanno gravitato poco attorno al calcio, privilegiando piuttosto sport come rugby o football australiano. Le spiegazioni sono molteplici e variano dallo stretto rapporto, di cui avevamo già parlato, del calcio con le minoranze bianche, alla negligenza di FIFA e Federazione nell’elaborare programmi di sviluppo adeguati, fino alla difficoltà neanche troppo lontana nel tempo per queste popolazioni di muoversi liberamente per il paese e raggiungere, quindi, luoghi in cui il calcio fosse praticato con frequenza e dimestichezza.

Nel 2023, il 13% dei giocatori di National Rugby League era indigeno. Nel football se ne contavano addirittura 103 tra lega maschile (77) e femminile (26). Nell’A-League maschile di calcio, il numero di rappresentanti è invece pari a 2. Secondo l’ultima profilazione, gli individui che in Australia si identificano come aborigeni e/o dello Stretto di Torres sono il 3,2%. In questo senso, una rappresentanza così esigua in una lega sportiva non è di per sé uno scandalo, ma fa effetto se si considera che il calcio è lo sport più diffuso al mondo ed è, per di più, uno dei più facili da praticare. Paradossalmente, rugby e football australiano presentano maggiori ostacoli per i giovani abitanti di territori poveri e remoti, eppure vantano una diffusione maggiore che si riflette nella resa ai massimi livelli.

Nel calcio femminile la situazione appare migliore. La Nazionale australiana che nel 2023 ha ospitato la Coppa del Mondo poteva contare su Kyah Simon dei Central Coast Mariners e Lydia Williams, portiere del Melbourne Victory. Un paio di anni prima avevano scatenato una discussione pubblica piuttosto accesa quando, insieme alle proprie compagne, avevano esposto la bandiera delle First Nations. Bandiera che, durante il Mondiale, è stata esposta in tutti gli stadi coinvolti insieme a quella dello Stretto di Torres, richiamando anche qualche accusa di attivismo performativo nei confronti della FIFA.

Galeotta, per il calcio femminile australiano, fu Karen Menzies, il cui esordio in Nazionale è arrivato nel 1983. Tredici anni prima ci fu John Williams, il quale nel 1974 partecipò anche alla spedizione australiana al Mondiale in Germania Ovest.

Come loro, le Matildas attuali vogliono essere d’esempio e ispirazione. Una visione pubblicamente condivisa da David Williams, attaccante 36enne del Perth Glory, e Tate Russell, terzino classe ‘99 appena passato al Western Union. Sono loro a rappresentare l’orgoglio aborigeno in A-League. Nella lega femminile si destreggia tra le altre Allira Toby, 29enne del Canberra United. Per lei, da bambina, la stella polare è stata Cathy Freeman, grande campionessa della pista d’atletica, in particolare sui 400 metri. Toby, che sulla sua pelle ha imparato quanto sentirsi e soprattutto vedersi rappresentati sia importante, intende il suo peso simbolico quasi come una missione.

Questo movimento, tante volte ferito ma sempre pulsante, da sessant’anni trova forza nel nome e nel volto di John Moriarty, che con 86 primavere sulle spalle non ha ancora intenzione di fermarsi. E la cui eredità in futuro potrà contare su tante, degnissime mani.


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