La morte di un club non può che lasciare un ricordo amaro nelle menti degli appassionati. La fine di una squadra si affigge come un quadro, in quel tempio sacro che è sede della memoria. Nel caso del Chivas USA esso sembra un Goya. È il sonno della ragione di Jorge Vergara e sua moglie, Angelica Fuentes, che genera mostri.
Il Chivas USA è un club nato da un progetto trascendentale, con l’obiettivo di riaffermare la forza del popolo messicano in terra statunitense. Un sogno demolito in soli dieci anni. Un’utopia diventata in pochi mesi una realtà e presto rispedita nell’oblio. La realtà ha bussato alle porte del club di Los Angeles nel 2014. Il conto, salatissimo, ha trasformato una potenziale opera d’arte, in una fantasia mal concepita ed il suo lascito non è stato altro che un imbarazzo ammonitore.
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Agli albori della MLS
Per comprendere il Chivas USA, c’è bisogno di fare un salto nel passato. Innanzitutto, è importante comprendere l’ecosistema in cui l’MLS viveva ad inizio 2000. Le infrastrutture di livello erano poche, il livello qualitativo della competizione era scadente e non scaldava gli animi dei tifosi. Inoltre, dal suo debutto nel 1996, il campionato aveva racimolato un debito pari a 250 milioni di dollari. La lega aveva bisogno di un’idea non solo per risanare le proprie casse, ma anche per dare lustro al nome del campionato. In poche parole, i proprietari Hunt, Anschutz e Kraft avevano bisogno di una scossa vitale. Infatti, come disse il direttore delle comunicazioni del Chivas USA nel 2004, l’esistenza dell’MLS era a rischio. Senza cambiamenti sarebbe fallita in pochi anni.
Jorge Vergara poteva rappresentare la svolta: uomo d’affari messicano, già proprietario del Chivas de Guadalajara e del Deportivo Saprissa, in Costa Rica. L’idea del magnate di Guadalajara era a dir poco ambiziosa: ribaltare il modello tradizionale che vigeva in MLS.
Si dovevano smuovere le menti e le anime dei giovani ragazzi di origine messicana, residenti negli Stati Uniti. La politica del club sarebbe stata quella di ingaggiare solo giocatori di origine messicana o latinoamericana. Voleva donare a chi aveva oltrepassato il confine una squadra in cui riconoscersi. E all’inizio tutto sembrò funzionare.
In un momento storico in cui la maggior parte delle squadre della MLS erano guidate da americani, il Chivas rappresentava un unicum. La società di Vergara operava principalmente in spagnolo, sia nei rapporti con la stampa che all’interno del club. La grande presenza di latinoamericani nel sud della California portò un grande numero di tifosi al Chivas. Per tutti gli addetti ai lavori la società era sinonimo di avanguardia, rivoluzione: in realtà bastarono pochi mesi prima che quella linea di pensiero crollasse.
Vergara e la sua visione
Jorge Vergara è stato un uomo con una visione ben precisa, un presidente col sogno di portare nel calcio il melting pot imperante nella società statunitense. Il magnate messicano pensò di aver raggiunto
l’illuminazione nell’ottobre del 2003, quando i San Josè Earthquakes giocarono un’amichevole contro il Chivas de Guadalajara del presidente Vergara. La squadra californiana si trovava al primo posto della Western Conference e nutriva l’ambizione di vincere la MLS Cup, quindi per l’amichevole scelse di schierare le riserve. Anche il Chivas, guidato dal neoallenatore Hans Westerhof, schierò una formazione composta da giocatori del CD Tapatío, la squadra B. Vinsero proprio questi ultimi, per 2-0
Quella vittoria per Vergara era sintomatica delle condizioni in cui versava l’MLS. Si era convinto che una squadra composta da sole riserve avrebbe potuto battere qualsiasi squadra americana, fu questa la scintilla che lo portò a decidere di fondarne una che potesse ambire a trionfare in campionato. Vergara, però, non è stato solo un visionario. O meglio, questo suo ego si dimostrò smisurato e ne compromise i sogni di gloria, trasformando il suo sogno in un incubo.
Problemi di adattamento in casa Chivas
Per la prima stagione in MLS, nel 2004, Vergara scelse di affidare la guida della squadra a Thomas Rongen, su indicazione proprio di Westerhof. L’allenatore del Chivas de Guadalajara promise al presidente di poter allestire una squadra competitiva, permettendogli di portare in America tre titolari dei Rojiblancos. Westerhof però si dimise e il neoallenatore della squadra messicana, Benjamin Galindo, riuscì a portare la squadra messicana alla qualificazione in Copa Libertadores.
Raggiunto quest’obiettivo, Galindo “blindò” i suoi calciatori. Di conseguenza, il Chivas USA rimase a bocca asciutta. In Vergara, però, restava vivo il ricordo della gara contro San Josè e scelse quindi di portare in MLS molti ragazzi del Tapatìo. Mai scelta si rivelò più sbagliata: la rosa per affrontare la loro prima stagione negli stati Uniti si rivelò disastrosa. A parte Ramòn Ramirez, ormai trentacinquenne, c’erano pochi giocatori degni di nota. I difensori Ezra Hendrickson, Orlando Perez e Ryan Suarez e il centrocampista Francisco Gomez furono gli unici giocatori a contare su qualcosa più di una manciata di presenze in MLS. Il resto della squadra era invece composto da giovani, molti dei quali provenienti da Guadalajara. Dal draft, invece, arrivò il portiere Brad Guzan, che più tardi diventerà un’istituzione nel campionato, oltre ad avere un importante carriera in Premier League.
Per l’ultima partita di preseason, il Chivas USA organizzò un’amichevole contro l’Osasuna, allora allenato dal leggendario ex nazionale messicano Javier Aguirre. Doveva essere un momento di grande orgoglio per l’intera comunità, ma alla partita si presentarono poco più di 10.000 persone, in uno stadio, l’Home Depot Center, che ne poteva contenere più di 30.000. La preseason suonava già come un campanello d’allarme e il prosieguo della stagione fu effettivamente complicato. Rongen venne esonerato dopo 10 partite (e una sola vittoria) e la squadra terminò la sua prima annata in MLS con soli 18 punti.
Moto d’orgoglio
Dopo quella stagione il presidente Vergara sembrava conscio che, prima di poter dare forma alla sua visione utopica, aveva bisogno di un club solido e promettente. Per questo la scelta per il ruolo di allenatore ricadde
su Bob Bradley, reduce dalla vittoria di una MLS Cup e due U.S.Open Cup coi Chicago Fire.
Dopo l’assunzione Bradley fu insignito dei poteri non solo di allenatore ma anche di CEO ed iniziò subito a sviluppare una visione a 360 gradi del club. Bradley riorganizzò completamente il roster concentrandosi sugli americani, puntando ad una squadra vincente. Volle fortemente Sacha Kljestan, Jonathan Bornstein, il centrocampista Jesse Marsch e il promettente difensore centrale Jason Hernandez. Entrò in squadra la leggenda messicana Claudio Suarez, che si unì ai suoi
compagni di squadra dell’El Tri Ramirez e Paco Palencia.
Per la prima volta il Chivas si qualificò ai playoff e Bradley vinse il premio di miglior allenatore dell’anno. Bornstein fu Rookie of the Year e Razov vicecapocannoniere con 14 reti, mentre la presenza media sugli spalti crebbe da 17.084 a 19.840, il secondo dato più alto del campionato.
Dopo il suo addio, i cambi culturali apportati da Bradley si sgretolarono velocemente: il suo vice, Preki, non sembrava in grado di dare un’impronta al club, che finì con lo sprofondare nei bassifondi del campionato.
Dopo quattro anni di alti e bassi, il Chivas USA cominciò ad andare in pezzi: i migliori talenti in squadra se ne andarono e il club iniziò a temere il peggio.
Il declino
Il presidente Vergara tornò sui suoi passi e per sostituire i veterani della MLS che erano partiti, scelse ragazzi semisconosciuti, provenienti da Messico e Sudamerica. Una sorta di riacutizzarsi della fase di latinizzazione. Inoltre, la dirigenza sembrava sempre più orientata a concentrarsi sul campionato messicano, relegando in un angolo il Chivas USA.
Nonostante gli scarsi risultati, il club rinnovò la fiducia a Vasquez, il quale chiese di assumere un nuovo assistente. La conseguenza fu una spaccatura tra proprietà e coach che portò al licenziamento di Vasquez e all’arrivo – al suo posto – di Robin Fraser.
Il neoallenatore capì subito di essere entrato in contatto con un ambiente non sano. I soldi erano sempre meno, ma le ambizioni del presidente Vergara si facevano sempre più alte e i parametri sempre più stringenti. Quando doveva scegliere un calciatore da acquistare, la nazionalità (quella messicana ovviamente) era l’unico parametro di scelta.
Il campionato messicano però pagava molto bene i propri giocatori e le cifre che chieste per i cartellini dei calciatori erano irreali per le casse del Chivas USA, che doveva accontentarsi delle briciole. Ciò portò sempre più la squadra a non girare, gli spalti erano vuoti e la fidelizzazione col pubblico ai minimi storici. Serviva una svolta e fu così che Vergara e la moglie Angelica Fuentes rilevarono il 100% della società. L’acquisizione fu una condanna a morte per il club. La squadra diventò ben presto il luogo d’approdo per i giocatori scartati dai cugini di Guadalajara.
La morte del club
Il 23 luglio 2013 il programma Real Sports di HBO mise la pietra tombale sulla storia del Chivas USA. Due dipendenti del club – Dan Calichman e Teddy Chronopolous – allenatori dell’Academy infatti, intentarono una causa contro la società. In particolare, la descrissero come un’organizzazione che attuava pratiche lavorative razziste e discriminatorie. Dopo che Vergara acquisì il pieno controllo della società, disse allo staff del club che se non avessero parlato spagnolo, sarebbero stati licenziati. Le accuse erano pesanti e la situazione delicata. Il club diventò, così, fonte di imbarazzo a livello nazionale.
Inoltre, a tutti gli allenatori fu chiesto di dividere i giocatori in due liste diverse: una contenente i messicani e una di stranieri. I due allenatori si rifiutarono e perciò vennero allontanati dalla squadra. Nel 2013, Vergara acquistò otto nuovi giocatori messicani e dei diciotto calciatori esclusi dalla rosa quell’anno, nessuno era di origine messicana. Al contrario, ben dieci erano statunitensi. Quella stagione fu un disastro conclamato: il Chivas USA finì ultimo nella Western Conference e, visti gli investimenti ormai ridotti all’osso, la Lega decise di porre fine alla loro storia.
Nel febbraio 2014 riacquistarono la franchigia per 70 milioni di dollari e la presidenza del club fu affidata a Nelson Rodriguez, che l’avrebbe accompagnato ad una “morte” graduale. Il Chivas USA giocò la sua ultima partita il 26 ottobre 2014. In una giornata da cartolina nel sud della California, il club battè i San Jose Earthquakes 1-0. Laddove tutto iniziò, il Chivas ha trovato la sua fine. Un destino ciclico, quello della società di Vergara, che cessò le operazioni il giorno successivo.
Il futuro del fu Chivas USA
Presto la lega comunicò che dalle ceneri del Chivas sarebbe sorto un nuovo team a Los Angeles. Nel giro di qualche anno ecco dunque il Los Angeles Football Club. La guida tecnica fu affidata a Bob Bradley e al messicano Carlos Vela affidata la leadership in campo di un gruppo multiculturale. Quasi uno scherzo del destino. Alla fine, fu proprio il LAFC a unire ispanici e americani, laddove il Chivas USA non era riuscito.
La società di Vergara un’eredità l’ha lasciata in ogni caso: l’MLS ha imparato da quello che è stato definito “il peggiore errore di sempre”. Lo spirito di inclusività alla base del Chivas USA è andato via via scemando ed il suo nobile obiettivo venne ribaltato. Il club passò dal voler essere un’icona per i latinoamericani, ad essere un incubo per i non-messicani. Si passò da ideali puri che avrebbero potuto rivoluzionare il calcio a stelle e strisce a un controverso epilogo fatto di troppi processi giudiziari.
Un quadro nasce sempre per imprimere il proprio lascito sulla società. A volte, però, l’immagine si corrompe, si deforma. E quando i contorni si fanno più labili, ciò che sta all’interno diventa incontrollabile. La morte di un’idea, però, non è sempre negativa.
Il ricordo dolceamaro di una visione fallimentare può essere un monito. Può, a volte, dare la spinta propulsiva per un futuro migliore. Perché se è vero che il sonno della ragione genera mostri, è altrettanto vero che, quando periscono, queste creature non scompaiono. La morte non è la fine, ma un rito catartico. Un passaggio purificatore. Ecco, allora, che dalle ceneri del Chivas USA è sorto il LAFC, una club destinato a ridare luce alla città degli angeli.
Foto di copertina realizzata da PSM Sport
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