Hector Cuper è da sempre considerato un perdente, ma alle volte è più complicato essere eterni sconfitti che vincenti effimeri.
Facile esaltare un vincente e utilizzare il suo faccione come simbolo di grandezza.
Lui si che è un grande, un esempio da seguire.
E giù di elogi, pacche sulle spalle, commenti usciti dalla bocca di persone che fino ad un secondo prima non sapevano neanche chi fossi.
La gloria ha il demerito di essere passeggera, alle volte.
Il tonfo assume i connotati della disfatta, l’orgia di positività si sparpaglia come composta da un branco di condor che hanno appena terminato di banchettare.
Nessuno vuole essere Robin, o meglio, nessuno vuole essere Hector.
Hector Cuper è il simbolo per eccellenza del perdente, mai nessuno che spieghi, però, quanto sia effimera la vittoria e tombale la sconfitta. Nessuno che dica e mitizzi il suo cammino, i suoi meriti.
Non è forse più importante l’evoluzione di una storia, piuttosto che il suo finale?
È banale etichettare un grande professionista che, nella maggior parte dei casi, ha preso un gruppo in una situazione difficile, per innalzarlo in breve tempo ai piani alti del calcio, contro il pronostico di tutti. È ingiusto parlare di lui come l’eterno perdente.
Chi semina in maniera oculata come lui e vede poi raccogliere i frutti del suo lavoro da altri, meriterebbe elogi.
Invece è considerato dai più con la stessa importanza di una cumulo di polvere su una mensola.
Il cammino di un uomo
Tenendo conto esclusivamente del suo cammino da tecnico nel Vecchio Continente, nel 1997 firma per il Maiorca appena tornato in Liga e, nel giro di due stagioni, arrivano la vittoria in Supercoppa spagnola contro il Barcellona di Rivaldo, la finale della Coppa delle Coppe persa contro la Lazio e il terzo posto nel 1998-1999, miglior posizionamento nella storia del club.
Estate 1999, Valencia, raccoglie l’eredità di Claudio Ranieri, altro sottovalutato cronico, almeno fino al trionfo in Premier con il Leicester, il trofeo riconciliatore che è mancato ad Hector. La squadra è farcita di ottime individualità e vola in Champions League e per due anni di fila arriva in finale.
Epilogo triste, ogni volta.
Non parliamo poi dell’esperienza con l’Inter.
A Milano sfiora uno scudetto ormai passato alla storia come la ferita delle ferite per la Beneamata e esce in Coppa UEFA solo in semifinale, contro il Feyenoord: uno a zero in Olanda, due a due a Milano.
La stagione 2002-2003 scorre sulla falsariga della prima: secondo posto in campionato, con l’infortunio di Vieri sul più bello ed eliminazione in semifinale di Champions dopo doppio pareggio contro il Milan, con Abbiati che para all’ultimo respiro su Kallon, strozzando l’urlo dell’Hombre Vertical.
In Europa, con l’Inter, solo Mourinho è riuscito a fare meglio, ma lo Special One raccolse e migliorò un gruppo storico ormai rodato, Cuper prese la squadra che Marco Tardelli aveva portato ad uno storico derby perso per sei a zero e che aveva davvero pochi stimoli.
Tacendo dello splendido Egitto che nel 2017 perse la finale della Coppa d’Africa, all’89’, contro il Camerun.
Epilogo
Fino a qui, tutto bene.
Fino a qui, tutto bene.
Ancora una sigaretta da fumare, per sbuffare, in una nuvola azzurrognola, l’ennesima sconfitta.
Il destino ha deciso per me, ma non mi fermerò.
Come disse un saggio, l’importante è ciò che lasci, non la conclusione.
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Fonte foto di copertina: https://commons.m.wikimedia.org/wiki/File:Cuper_Hector.jpg
Fonte: Fotoreporter Roberto Vicario, Autore:Fotoreporter Roberto Vicario.
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