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Il calcio sotto la cella di Mandela

“Lo sport ha il potere di cambiare il mondo, può creare speranza dove prima c’era solo disperazione”.

Alla luce di queste frasi, Nelson Mandela ha davvero fatto entrare nella sua vita e in quella di milioni di persone una disciplina in particolare, il rugby. Ha cercato di unire una nazione e la sua gente sotto un’unica bandiera, rappresentata da una sola squadra che nel 1995 conquistò la Coppa del Mondo facendo germogliare il nuovo Sudafrica. La boxe, poi, ha avuto un ruolo fondamentale. Lui stesso era stato un pugile da giovane ma un appassionato per tutta la vita, e diversi campioni del ring come Ali o Frazier lo hanno incontrato. Un evento lo unisce pure al tennis: la resa dei conti di Wimbledon ’80 fra McEnroe e Borg, ascoltata con una radiolina ottenuta dagli aguzzini.

C’è stato però anche spazio per il calcio. Si potrebbe raccontare infatti di quando, l’anno successivo al trionfo degli Springboks, la palla ovale non fu più la sola a rotolare verso la vittoria. Con quella sferica i “Bafana Bafana” alzarono infatti al cielo la Coppa d’Africa casalinga, voluta dallo stesso Presidente dopo la rinuncia del Kenya. Era la prima edizione allargata a 16 partecipanti e in campo c’erano Phil Masinga, l’allora centravanti della Salernitana che di lì a poco sarebbe passato al Bari, e Mark Williams, colui che con una doppietta ravvicinata risolse la gara decisiva con la Tunisia.

Si potrebbe raccontare del Mondiale 2010, dell’ultima apparizione pubblica di “Madiba”, del suo giro di campo nel giorno dell’atto finale del torneo con il viso stanco irradiato da un sorriso ancora vivo, rivolto verso il saluto assordante delle vuvuzelas

Bisogna però partire da Robben Island. Prima di vincere il premio Nobel per la Pace assieme a Frederik De Klerk, prima di diventare presidente nero di uno Stato e di un popolo almeno legalmente tutto uguale, Mandela ha attraversato ventisette anni di prigionia. Di questi, diciotto nella piccola terra circondata dall’Atlantico ad una manciata di miglia dalla costa di Cape Town. La città era adibita a carcere per gli oppositori fin dai tempi in cui a esercitare il controllo eranl i Paesi Bassi. Alle spalle di questo movimento ci sono infatti intrecci di politica, di umanità, di libertà negate e riconquistate negli anni dell’ “apartheid”. È una parolina della lingua afrikaans – idioma olandese misto all’inglese e ad alcuni elementi locali – che indica la segregazione razziale in atto dal 1948 al ’91.

In quel periodo lo scoglio è stato la prigione degli esponenti più in vista nella lotta al regime bianco. Che però non si sono arresi, sopportando i pesanti trattamenti a loro riservati e ritagliandosi anche un lembo di normalità. Di pallone. I detenuti ci sono arrivati tutti insieme, richiedendo la possibilità di giocare, vedendo il loro desiderio ciclicamente rigettato. Poi, alla fine, dopo decine di punizioni, privazioni e tentativi a vuoto, raggiungendo il traguardo piccolo ma significante di un arco di tempo disponibile al sabato. A detta delle guardie avrebbero resistito poco, sfiancati da una settimana di lavori forzati, ma si sbagliavano.

Potrebbe sembrare cosa da nulla, ma dopo soprusi e fatiche gli internati si riappropriavano del loro essere uomini. Era un qualcosa che andava oltre la semplice possibilità di gareggiare, costituendo un importante dimostrazione di come non si fossero persi orgoglio e speranza. Ne traevano l’energia necessaria per correre in su e in giù per uno spiazzo punterellato da decine di buche, che per un po’ diventava lo stadio più bello del pianeta.

Va precisato che coloro che avevano creato più problemi avevano misure ancora più strette e non godevano di questa concessione, su tutti Mandela. In un primo momento poteva spiare dalla sua ala del penitenziario quanto accadeva dalla finestra. Poi, complice un ulteriore muro innalzato per renderlo ancor più solo nella sua minuscola “stanza”, si dovette affidare alle urla che giungevano da fuori e dai commenti scritti.

Si arrivò ad un vero e proprio comitato organizzatore, la Makana Football Association. Prendeva il nome da un guerriero zulu che era stato ucciso due secoli prima nel tentativo di evadere dall’allora Robbeneiland e seguiva fedelmente le Regole del Gioco. Questo è uno dei pochi libri rintracciabili in biblioteca e il più quotato assieme a “Das Kapital” di Marx. Ad esempio, le porte si costruivano di dimensioni idonee con attrezzi da pesca trascinati a riva dall’acqua. Vi “aderirono” nove società, che tramite le loro diverse squadre permettevano di costruire una piramide con tanto di promozioni e retrocessioni. Le formazioni erano composte secondo l’appartenenza all’African National Congress, in presenza maggioritaria, al Partito Panafricano o ad altre correnti.

Questa è l’unica foto esistente di una partita della Makana Football Association

L’unica compagine che non reclutava solo in base ai colori politici era il Manong. Era dunque la più tifata, forte e titolata. Aveva vinto le prime due edizioni del campionato, le uniche delle quali si abbia notizia, oltre ad essere registrata in vetta alle graduatorie dei successivi due al giro di boa.

La scelta dei nomi societari era alquanto curiosa. Il Manong faceva parte di quella categoria che prendeva spunto dalla tradizione e dalle tribù locali. Stessa cosa per Ditshitshidi e Mphatlalatsane. Altri si ispiravano invece alle corazzate britanniche, come nel caso di Hotspurs e Gunners, protagonisti di un derby di Londra a oltre dodicimila chilometri di distanza dalla capitale inglese. A contendersi la prima partita in assoluto furono Rangers e Bucks una mattina del dicembre 1967. Da lì fu un crescendo per quattro stagioni, con un’organizzazione strutturata meticolosamente.

Lo sport era di casa addirittura grazie a delle “Olimpiadi” estive coordinate da uno dei più attivi nell’ambito sportivo, Sedick Isaacs. Una volta libero, Isaacs si impegnò nella medicina e nella matematica, abilità che aveva affinato tramite l’esercizio del calcolo mentale nell’interminabile isolamento forzato.

Tante erano le personalità di spicco che poi sarebbero state coinvolte nella rinascita. Dalla stesura dei referti delle gare a quella delle leggi. Parliamo di Jacob Zuma (presidente nazionale per nove anni) e Dikgang Moseneke (giurista impiegato poi anche in Corte Suprema).

Da menzionare anche Tokio Sexwale, la cui moglie Judy riuscì a portare sull’isola delle maglie apposite per gli incontri. Ultimo, ma non per importanza Mosiuoa Lekota. Era soprannominato “Terror” per il suo stile di gioco aggressivo e che poi sarebbe diventato Ministro della Difesa.

Esiste una sola foto di quei momenti, diffusa per dimostrare la fantomatica buona salute dei prigionieri, e per giunta con i volti oscurati. Tuttavia, ciò che rappresenta la Makana FA è ben più significativo: un patrimonio ricco di memorie e insegnamenti. La FIFA la riconobbe come suo membro onorario nel 2007 in occasione di un’occorrenza speciale, ossia il compleanno di Mandela. Dai piedi di Pelé, Gullit, Eto’o e Weah 89 sfere, una per ogni anno di vita del leader della lotta all’apartheid, gonfiarono le reti dell’isola, deboli di materiale ma ricche di ricordi.

In seguito, questi campioni si riunirono in un incontro sul rettangolo verde. Indossarono delle magliette bianche con il numero 466/64, ovvero la matricola di Mandela in carcere, regalando spettacolo al pubblico. Prima che si accendessero i riflettori sugli storici Mondiali, per il Sudafrica si chiudeva un cerchio. Sì, veniva finalmente riconosciuta la storia sportiva della brulla, inospitale, intrisa di sangue e questa volta di bellezza Robben Island.

Fu così che il calcio divenne strumento di compattezza, di autodeterminazione e libertà. Perché d’altronde, questo è il suo obiettivo più nobile.


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