Il Chelsea con Mourinho vinse due Premier League, spezzando nel 2004/2005 un brutto incantesimo che durava da 50 anni. Il tecnico di Setubal rivoluzionò tatticamente un campionato stagnante da anni.
«Non posso promettere a voi tifosi il titolo della Premier, ma capisco la vostra ambizione. Siamo una squadra forte, pronta per combattere per raggiungere i nostri sogni».
José Mourinho durante la sua prima conferenza come allenatore del Chelsea
L’arrivo dello Special One
All’alba della stagione 2004/2005 il Chelsea si apprestava a celebrare una ricorrenza dal sapore amaro. Dall’allora unico e ultimo titolo di Campioni di Inghilterra erano passati infatti ormai ben 50 anni.
Il lavoro svolto da Claudio Ranieri l’anno precedente era stato convincente, ma non aveva portato a nessun titolo in bacheca. E per il presidente Roman Abramovic, magnate poco avvezzo a non figurare nell’elenco dei vincitori, non era sufficiente.
José Mourinho, l’uomo in grado di trascinare un modesto Porto a due successi europei consecutivi, sembrava il profilo adatto per sostituire l’allenatore italiano.
Per convincere l’astro nascente della panchina ad abbandonare i Dragões, Abramovic offrì al portoghese un ingaggio molto sostanzioso e carta bianca sul mercato, promettendo di ingaggiare i giocatori più funzionali al progetto del tecnico.
La costruzione di una squadra vincente
Garantitasi la libertà d’azione necessaria, il tecnico di Setubal poté chiamare alla sua corte i suoi fedelissimi alfieri Paulo Ferreira e Ricardo Carvalho per rinsaldare la linea difensiva. Mourinho non pretese giocatori già affermati da strappare alle grandi big europee. Fu invece in grado di selezionare calciatori giovani, affamati di successo e ammaliati dal suo carisma. Dal Rennes arrivò il ventiduenne Petr Cech, Arjen Robben aveva da poco compiuto venti anni e Didier Drogba era alla ricerca di un palcoscenico importante per esplodere il suo talento.
Una corazzata imbattibile stava per nascere, ma l’Inghilterra non ne era ancora consapevole.
Un enigma tattico
Rifiutandosi di aderire ai rigidi dettami della Premier League, in cui ogni variazione dal canonico 4-4-2 era vista con sospetto, Mourinho coltivò il seme di quello che sarà il modulo più usato dalle grandi squadre nei quindici anni a venire.
Il suo 4-3-3 era granitico ed inscalfibile, letale nelle ripartenze. Stritolava le compagini avversarie nei suoi tentacoli, come una piovra insaziabile sempre in cerca di nuovo prede.
La presenza autoritaria di Cech tra i pali e le qualità di Terry e Carvalho al centro garantivano solidità alla squadra, lasciando i terzini Gallas e Paulo Ferreira liberi di prendersi licenze offensive quando necessario.
Claude Makélélé riscrisse il ruolo di centrocampista difensivo in virtù del suo senso della posizione, delle sue qualità aerobiche e della sua impareggiabile abilità nel recupero del pallone. La mezzala destra, in principio Tiago e negli anni seguenti Essien, garantiva quantità ed equilibrio al centrocampo, lasciando Lampard libero di lanciarsi in attacco.
Artiglieria pesante
La posizione ibrida dell’ex West Ham risultava illeggibile per i difensori avversari, indecisi se abbandonare l’uomo di riferimento per assorbire i tagli del centrocampista inglese. E l’attimo di esitazione risultava spesso fatale.
Nelle due stagioni sotto la guida di Mourinho, Lampard segnò 29 reti e fornì 25 assist ai compagni. Numeri inimmaginabili fino ad allora, per un centrocampista. La minaccia di Lampard completava un attacco formidabile, composto dalla possenza di Drogba, la creatività di Joe Cole e la freschezza di Arjen Robben.
Potendo disporre di due terzini in grado di garantire ampiezza come Ferreira e Gallas, Mourinho fu tra i primi allenatori a schierare le sue ali a piede invertito: Robben a destra per rientrare sul mancino, Joe Cole a sinistra per poter sfruttare al meglio l’half space di sua competenza.
Insuperabili
Il primo Chelsea di Mourinho si abbatté come una furia su una Premier League incapace di comprenderlo. Le tattiche del portoghese rappresentarono un rompicapo irrisolvibile per gli altri allenatori, impotenti nel fronteggiare una macchina da guerra così ben strutturata. Al termine della stagione, i Blues si aggiudicarono il secondo titolo della loro storia con 95 punti, record assoluto per l’epoca. Solo in anni più recenti il Manchester City di Guardiola e il Liverpool di Klopp saranno in grado di superare tale soglia. Nonostante una fase offensiva di prim’ordine, con 72 goal messi a referto – secondo miglior attacco della competizione, dopo l’Arsenal di Henry – a stupire era la difesa. L’eccezionale solidità di Terry e Carvalho, unita alle letture di Makélélé e alle prodezze di Cech consentirono ai londinesi di tenere la porta inviolata in 25 occasioni, subendo solo 15 reti nell’arco di un intero campionato. L’unica sconfitta arrivò ad ottobre contro il Manchester City, per via solamente di un rigore realizzato da Anelka.
Di nuovo campioni
L’anno seguente la squadra fu migliorata ulteriormente con degli innesti di qualità. Al centro dell’attacco tornò Hernan Crespo, al termine dell’esperienza in prestito al Milan. Il promettente terzino sinistro Asier Del Horno venne acquistato dall’Athletic Bilbao per 8 milioni di sterline, ma soprattutto arrivarono Shaun Wright-Phillips e Michael Essien. Il centrocampista ghanese fu prelevato dal Lione per 24 milioni di sterline e divenne da subito uno dei punti fermi del centrocampo dei Blues, con cui rimase per nove anni.
Nonostante una prematura eliminazione in Champions League per mano dei futuri campioni del Barcellona, la stagione 2005-06 fu ricca di soddisfazioni per il Chelsea. Superando la concorrenza agguerrita di Manchester United e Arsenal, la squadra di Mourinho si laureò campione di Inghilterra per la seconda volta consecutiva. Al termine del torneo, infatti, i Blues avevano sia il miglior attacco che la miglior difesa: 72 goal fatti, solo 22 subiti.
La fine di un ciclo
La stagione 2006-07 fu meno trionfale delle precedenti. Gli innesti di Ballack, Kalou, Mikel e Ashley Cole non riuscirono a portare il Chelsa oltre il secondo posto in campionato, alle spalle dello United. In Champions i Blues uscirono nuovamente in semifinale contro il Liverpool, come era già successo due stagioni prima. Nonostante ciò, la squadra di Mourinho trionfò in entrambe le coppe Nazionali, portando la Coppa di Lega e la FA Cup a Stamford Bridge. Il finale di stagione fu poco esaltante, e qualcosa sembrava essersi rotto tra Abramovic e il manager portoghese, che fu esonerato il 20 settembre del 2007.
L’eredità lasciata da Mourinho alla Premier League va oltre i trofei conquistati e i record battuti, e persino oltre l’affetto degli spalti di Stamford Bridge. Mou riuscì a rivoluzionare tatticamente un campionato stagnante da anni, e costrinse i suoi avversari ad aggiornarsi e a ideare delle contromisure sempre nuove pur di fermarlo.
La periodizzazione tattica, la mezzala goleador alla Lampard, l’uso degli esterni a piede invertito per supportare la discesa dei terzini… L’ondata inarrestabile di novità finì per influenzare tutti gli altri allenatori, persino i più dogmatici e tradizionalisti. L’ultimo United internazionale, un ibrido tra 4-4-2 e 4-3-3 con Cristiano Ronaldo libero da incarichi difensivi, deve molto alle innovazioni del tecnico di Setubal, proprio come l’ultimo Arsenal di Wenger. Mourinho e il suo Chelsea fecero molto.
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