Ortega è stato un grande giocatore, dotato tecnicamente e capace di entusiasmare come pochi, nonostante covasse dentro di sé un malessere autodistruttivo.
Ortega era un genio in scarpette da calcio.
Un mago in una squadra, il River Plate di metà anni Novanta, che annoverava altri grandi prestigiatori della pelota, come il “Principe” Enzo Francescoli ed un giovane e dirompente Hernán Crespo, spalleggiati a centrocampo da giocatori del calibro di Matías Almeyda e Juan Pablo Sorín, con una vecchia conoscenza del calcio italiano a guidarli, quel Ramón Díaz che, in tandem con Aldo Serena, ha fatto le fortune dell’Inter di Giovanni Trapattoni nella stagione 1988 – 1989, con il Tricolore dei record.
Colpi incredibili, dribbling mozzafiato, per un artista della palla con pochi paragoni, in quel periodo storico, per tocco della sfera, tanto amabile quanto efficace.
El Burrito
Colui che passerà alla storia come “el Burrito”, ovvero “l’Asinello”, perché il padre era ovviamente “el Burro”, ha rappresentato uno dei rari casi in cui il paragone con un certo Diego Armando Maradona non è risultato troppo azzardato: il discorso dei “nuovi Maradona” è molto complesso e ha incastrato, nel marasma post-Diez in cui l’Argentina calcistica è caduta diverse volte, molti ottimi calciatori, tra i quali Javier Saviola e Pablo Aimar: talentuosi, forti, ma non abbastanza. Con Ariel Ortega, però, regge molto meglio il paragone, almeno per quanto riguarda l’estro e la capacità di mortificare, con i dribbling, il diretto avversario.
Ortega correva, correva e nello stesso momento in cui aumentava il passo per seminare l’avversario, il pallone emetteva un suono simile ad un cuore che batte, un “tum – tum – tum” sempre più rapido, per poi finire la sua corsa sotto l’incrocio dei pali, ammaestrato dall’amorevole Ariel.
Gambetas y problemas
Purtroppo, i dribbling del Burrito nascono e si sviluppano in un’anima accompagnata dalla sofferenza e da problemi di vario genere che gli daranno non poche grane. Un esempio? L’alcol.
Un passo per volta.
Ortega è nato e cresciuto a Ledesma e giunse minorenne alla corte dei Millonarios. Un po’ di apprendistato con le giovanili e la formazione Reserva, fino al grande salto ad appena diciassette anni, lanciato dal suo mentore sportivo, il campione del mondo Daniel Passarella. Come scrive Stefano Borghi su Ultimo Uomo, l’ex Caudillo “capì che aveva di fronte un potenziale grande giocatore, ma anche un ragazzino senza nessuna base per affrontare il mondo. Provò a fornirgliela, facendo cose come quella volta in cui, alla fine dell’allenamento, lo caricò in macchina e lo portò personalmente in banca per fargli aprire un conto corrente. Ortega non aveva la più pallida idea di cosa fosse”.
Lentamente, inizia l’epopea di quel grande River Plate e del suo talento Ortega: irriverente, capace di camminare spesso sul filo del rasoio emotivo, nella buona e nella cattiva sorte.
Nel 1997 si trasferisce in Spagna, al Valencia, dove non va d’accordo con il tecnico Claudio Ranieri. La convivenza dura un anno, poi va a Genova, sponda Sampdoria. Non rimarrà per molto: si trasferisce alla corte del Parma, farà ritorno in patria, al River, nel 2000, ma qualcosa cade inesorabilmente nel suo debole sistema nervoso, anche a causa di un Mondiale, quello catastrofico del 2002, che avrebbe dovuto lanciare lui e la Selección nell’empireo del futbol, salvo affossare entrambi inesorabilmente. Eppure, quel ritorno al Monumental lo aveva fatto tornare il Burrito di un tempo. Un gran peccato.
Nello stesso anno della nefasta manifestazione, il River lo cede al Fenerbahçe. Ortega non è felice. Il rapporto con il club turco si chiuderà con una denuncia da parte della compagine di Istanbul ai danni di Ariel: dieci milioni di euro di dollari di multa, il morale a pezzi.
La triste realtà
Ariel torna a giocare in Argentina, tra Newell’s Old Boys e River, ma il malessere che lo prosciuga da tempo sta chiedendo il conto. Nel 2006 dichiara, ormai stremato, di essere sull’orlo del baratro dell’alcolismo e della depressione. Da lì sono alti e bassi fragorosi, fino all’addio al calcio, nel 2012. Una carriera struggente, una vita vissuta oltre il limite dell’autolesionismo, da vero cavallo pazzo del futbol.
Ortega, genio e distruzione.
Ortega, fino alle lacrime.
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Fonte: El Grafico, Autore: Angel Juárez